Il Manifesto

La fabbrica del mondo disegna un altro mondo che non c’è ancora ma che bisogna costruire.
Serve un pensiero condiviso, da costruttori di cattedrali medievali, qualcosa che duri un po’ di più di noi.

Noi deviamo e interrompiamo il corso dei fiumi, creando invasi artificiali sopra i quali incombono versanti instabili. È l’Antropocene e si chiama così proprio perché siamo diventanti una forza geologica recente che plasma i paesaggi, spiana le foreste, scava le montagne e preme il suo tallone pesante sul mondo.
Lo facciamo più o meno da sempre e nel farlo siamo diventati umani a modo nostro, anche nelle ultime quattro generazioni, da quando la Grande Accelerazione, spesso in contrasto con la naturale lentezza dell’evoluzione biologica, ha generato un tesoro di ricchezza, per pochi, e adesso c’è il conto da saldare, per tutti.

“Chi paga?”, si domanda il coro quando l’Europa azzarda un briciolo di lungimiranza. E chi paga se non la facciamo, la conversione ecologica? Questo è un punto centrale: continuiamo a pensare all’ambiente con sguardo (limitato) sovranista, invece di pensare a una vera e propria cittadinanza ecologica globale. Purtroppo, molti sforzi per cercare soluzioni concrete alla crisi ambientale sono spesso frustrati non solo dal rifiuto dei potenti, ma anche dal disinteresse del senso comune.

Questa è la Fabbrica del Mondo: un cantiere di storie sulla Terra che si è inceppata; sulla biosfera che è anche un’antroposfera di animali, piante, pietre, dighe, plastiche, bombe, rigassificatori, barconi, treni e ferri da calza; sulle interconnessioni che fingiamo di non vedere; sui problemi e sulle soluzioni, senza purismi e moralismi, poiché tutti siamo parte in causa.
La Fabbrica del Mondo è anche improvvisazione: non si entra mai due volte nella stessa Fabbrica del Mondo. È uno svisceramento quotidiano di parole e di slittamenti semantici, una battaglia contro la manipolazione del linguaggio: chiamiamo “emergenza” e “calamità” ciò che in realtà è la nuova normalità; finora “sostenibilità” si intendeva nei confronti delle risorse naturali, adesso la usano nei confronti dell’economia.

La Fabbrica del Mondo è, e deve essere, radicale, perché corre lungo le radici, come funghi e batteri, in simbiosi con i propri assassini. La Fabbrica del Mondo è Noè, che bestemmia sempre più forte perché ormai il 2030 è dietro l’angolo, mancano meno di sette anni, e c’è da realizzare l’Agenda. Sette anni sono maledettamente pochi per una cattedrale. A peggiorare il suo umore, sale la febbre di Gaia: quando la Fabbrica del Mondo supererà gli 1,4 gradi partiranno i temuti e ampiamente previsti tipping points, i punti di accelerazione e di non ritorno nella dinamica climatica. Ora, basta fare due più due e si capisce cosa significa la convergenza di questi due dati: il futuro è arrivato e assomiglia a una turbolenza.
Ecco, La Fabbrica del Mondo è il palcoscenico sul quale si fa quel due più due, e l’imperatore è nudo, con tutta la poesia della favola e del teatro.

Noi deviamo e interrompiamo il corso dei fiumi, creando invasi artificiali sopra i quali incombono versanti instabili. Poi ci prendono la paura, il senso di colpa e la nostalgia, e smettiamo di produrre energia pulita facendo cadere l’acqua dall’alto. Come se ci fosse una Natura benevola alla quale fare ritorno. Siamo creature ambivalenti, contraddittorie e imperfette, dunque capaci talvolta di riscatto.