Tentativi di appunti personali di un’esperienza condivisa
Laddove non può la socialità spontanea e la società stessa; laddove le leggi e le regole faticano a tenere il passo del cambio dei tempi, e le scelte di pochi continuano a ricadere su molti senza una voce unita ad altre voci; ecco che il teatro, nel suo spazio limitato di pochi metri cubi in cui tutto è possibile, forse può arrivare.
Quanto vale un metro cubo di palco?
Circa 60 pantografi da 1 metro x 2.
In ogni pantografo siedono in media 3 persone, 180 corpi. Per terra il conto è più incerto ma anche più facile: siamo in 25 seduti tra gradoni e panche.
Ci sono con noi anche una tromba ed un violoncello con due corpi a fianco. E poi la scrivania, la lampada ed altri tre corpi. E poi le lavagne. Tre: due ai lati con altri corpi, una sospesa… grande, enorme, grigia, ricorda qualcosa di familiare a questa storia. Si riempirà di appunti, parole, nomi, numeri, disegni da ricordare. E poi 5 leggìi sui gradoni che dal palco scendono fino alla platea, dei “tornelli” di entrata ed uscita sempre aperti e senza spazio per i biglietti, solo storie. Quelle di cui è fatto il Vajont. Quelle a cui prestano il corpo altre 22 corpi, voci. Storie che ci fanno entrare ed uscire dal mondo dentro e fuori dal teatro. E poi? Loro, anzi noi: mille persone sedute nel resto del teatro, galleria, tribuna, prime file… Qualche corpo attraversa pure i corridoi prima di raggiungere lo spazio in cui leggeremo insieme, solcheremo la realtà con le parole, con la narrazione.
Quanto vale un metro cubo di teatro?
Vale più della somma di tutti quei corpi che darebbe “solo” mille e duecento. Vale più della somma di tutte quelle migliaia di persone che nello stesso momento, chissà da quale parte della realtà, chissà se e in quali altri teatri, stanno riunendo altri corpi, altre voci, altre storie (simili e diverse) per farsi coro civile che abita il teatro, riconciliandosi con uno dei suoi più antichi luoghi di prossimità collettiva e riflessione partecipata.
Dunque quanto vale? Vale un solco, un segno nell’esperienza, un movimento costante di riempimento e svuotamento, di salita e di discesa, di occhi negli occhi ed occhio al tempo che scorre veloce; vale anche la riappropriazione non indebita dello spazio teatrale ad opera delle comunità umane che raccontano e riflettono su loro ed il rapporto con la natura con la quale viviamo.
Una dialettica tra comunità umane e natura che, seguendo le tracce della storia del Vajont con la lucidità dei 60 anni trascorsi, può suggerirci oggi la ricerca immediata di paradigmi alternativi a quelli prevalentemente percorsi prima e dopo l’immane e, purtroppo, non inumana tragedia costata la vita a più della somma di tutte le persone presenti al Teatro Strehler (che già solo a vedere loro sembrano troppe) vittime di una catastrofe che è stata anche una tragedia d’ascolto. Di un ascolto mancato. Di un ascolto da ricucire. Di un ascolto che è stato il punto di partenza del “nostro” VajontS 23, il 9 ottobre 2023 al Teatro Strehler di Milano. A noi ricordare le date precise piace.
Ascolto è stata la parola che ha consentito a centinaia di corpi di diventare coro. Non ci siamo organizzati per parlare insieme. Abbiamo scelto di ascoltare insieme. Non abbiamo fatto le prove per andare insieme. Abbiamo fatto le prove per fermarci insieme. Non abbiamo organizzato battute. Abbiamo concordato silenzi.
Ci siamo ritrovati nei silenzi e nelle parole dette dagli altri. Ci siamo ritrovati più di noi nel silenzio di voci interrotte dalle campane di Longarone che ci hanno preso per mano e ci hanno fatto alzare dalle nostre sedute e ci hanno reso coro insieme con chi stava in platea. Il teatro si è riempito, sembrava volesse strabordare. E così ha fatto! È scappato dai margini, ha scavalcato le mura, ha travolto il mondo fuori per segnarlo.
Ecco cosa può un coro civile di teatro partecipato, o un’azione partecipata di teatro civile. Può trasformarci in coro che, appunto, non è massa inanimata ma corpi, suoni, voci, storie che si guardano, ascoltano e che rinunciano un pochino alla loro voce (come amava ricordarci Marco) per divenire un pochino più di “uno solo”. Nel segreto dei corpi di ogni partecipante ognuno ha trovato e custodito il proprio Vajont. Ha raccontato la propria storia. Ha trovato il proprio motivo per essere lì, in quell’esercizio smisuratamente democratico e meraviglioso che è il parlare insieme, il pensare insieme, il guardare insieme, l’agire insieme. Piccole azioni condivise travolgevano la nostra esperienza, segnandola come qualcosa da condividere fuori dal teatro, per trovare strade da percorrere immediatamente, risposte urgenti alle sfide che ci circondano; forse un nuovo modo di approcciarci ad esse. Noi siamo partiti da questo, dal “farsi coro” (parafrasando l’“altro” Marco che ha contribuito a trasformare una voce sola in quella di tanti).
Appuntavo in quei momenti: Il teatro è scappato dal teatro. La storia di un riempimento sfuggito al controllo. Un riempimento se è generato da un coro al posto di singole persone, da un coro al posto delle masse, non genera catastrofi, ma esperienze condivise, solchi, possibilità ed alternative (forse migliori) per il mondo che abitiamo. Uno “strappo nel cielo di carta”, preceduto e continuato, che ha un prima e avrà un dopo.
Quanto vale un grazie?
Vale Marco Paolini e tutta la Fabbrica del Mondo e la loro visione che hanno condiviso a maglie larghe, a finestre aperte. Vale la sua fiducia e le chiacchierate telefoniche sul senso di quello ceh stavamo facendo. Vale i suoi incoraggiamenti: grazie Marco!
Vale la scelta del primo teatro pubblico italiano, il Piccolo Teatro; dalla direzione artistica agli uffici produzione e rapporti con il pubblico che ci hanno tenuti insieme; dal personale tecnico a chi si è occupato di raccontare il progetto; vale tutto il personale del teatro che ci ha sostenuto, incoraggiato, ascoltato e dato suggerimenti, che si è sentito parte del coro fino al punto di scegliere di salire sul palco!
Vale la scelta di artiste ed artisti, scrittrici e scrittori, giornaliste e giornalisti, attrici e attori, videomaker e musicisti, attiviste e giovani laureati, rappresentanti istituzionali e rappresentanti civili. Vale Caterpillar di Rai Radio2 e la scelta di raccontarci ed amplificarci.
E vale la scelta delle associazioni, scuole, Università, Fondazioni di Milano: l’associazione bellunesi nel mondo, la Scuola di Teatro Luca Ronconi del Piccolo, la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi, i docenti delle Scuole Secondarie e degli Atenei, le studentesse e gli studenti delle Scuole Superiori di Milano e della Lombardia, il Virgo Vox Ensamble e l’associazione Cori Lombardia, il Comando Vigili del Fuoco, il Corpo Volontari Protezione Civile, la Croce Rossa Italiana, l’ANPI, C40 Cities, Fondazione don Gino Rigoldi / Comunità Nuova onlus, Fondazione Casa della Carità, Fridays fo Future, la Casa delle Donne, il Centro Milanese di Psicoanalisi “Cesare Musatti”, Animatori del Piccolo Teatro, Absolute Beginners, il Sistema Bibliotecario di Milano. Vale le mille persone sedute in platea che sono diventate coro nel corso della serata rinunciando alla comodità ed ai “privilegi” riservati ai soli spettatori.
VajontS23 è stata un’azione civile partecipata, un movimento di corpi, idee, voci, visioni, sensi e direzioni percorribili.
Una città parlante, vivente, attiva, anche di fronte alle catastrofi.
Una città che si è ritrovata in quel luogo che è il teatro in cui il tempo si apre a tutti i tempi, di cui si riempie senza necessità di ordine cronologico, in cui è ancora possibile alimentare una riflessione critica, una visione modificabile della realtà senza rinvio di giudizio.
Una città di contatto e naturali relazioni umane.
Quanto vale un grazie a tutte le persone che ci hanno creduto e si sono messe in gioco?
Non lo so, allora mi piace immaginare questo grazie come parte di quelle parole che hanno riempito lo spazio in cui ci siamo incontrati, guardati, emozionati ed abbiamo sorriso forse un po’ anche pianto, riflettuto e giocato, quella sera insieme al Teatro Strehler il 9 ottobre ’23 dal pomeriggio fino alle 22.39… anzi no, fino ad ora ed ancora chissà per quanto…
CORIFEO. Non so mai, a questo punto, come finire la storia. Ma raccontarla oggi, in qualche modo, non deve servire a consolarci. CORO (sussurrando) Ma a ribellarci. A ribellarci. A ribellarci. (Fine)
GRAZIE
M.D. Michele Dell’Utri – regista – Piccolo Teatro di Milano
Un resoconto a posteriori
Il primo obiettivo che mi sono prefisso all’alba del progetto è stato quello di provare a trovare delle soluzioni che consentissero di superare l’eccezionalità dell’evento. Ovvero, pensare all’iniziativa come un “solco”, una “tappa”, un pezzo di un percorso già avviato o da costruire. Per tale ragione la chiamata pubblica è stata mediata dal contatto diretto con tanti enti, associazioni, altre istituzioni, con i quali condividevamo un impegno civile comune. Che il teatro (parafrasando una riflessione di Luca Ronconi a proposito del rapporto tra teatro e scienza) potesse flettersi alle necessità della contemporaneità e, nel caso specifico, dei temi e degli obiettivi del progetto è stato il punto di partenza di ogni scelta. Superare l’idea di spettacolarizzazione dei contenuti, addentrarsi negli incogniti meandri della rimodulazione degli assetti e delle abitudini teatrali facendoci forti delle necessità contenutistiche. Scarnificare i linguaggi teatrali, senza mai abbandonarli; togliere gli orpelli, andare dritti all’obiettivo.
Da lì è nata l’idea di una “platea continua” e di un coro civile seduto sul palco, costantemente illuminato, partecipe dell’azione anche nell’ascolto dell’ulteriore coro di intellettuali, artisti, rappresentanti istituzionali, docenti, attiviste e giovani laureati che hanno mediato la storia del Vajont. Un coro che pone interrogativi, un altro che presenta risposte, ruoli e scelte che hanno condotto alla catastrofe. Un coro nella funzione civile di “specchio parlante” del pubblico seduto in platea, a pochi metri dai gradoni che dal palco arrivavano fino alla prima fila.
La suggestione iniziale è stata quella di lavorare sul riempimento, perché la storia che abbiamo raccontato, parlava di questo: un riempimento che rompe gli argini, straborda e satura tragicamente la vita. Un riempimento fisico dello spazio – corpi che divengono coro – un riempimento visivo ed acustico che voleva superare i confini dello spazio teatrale che si è confermato, ancora una volta, lo spazio in cui si può guardare, abitare, solcare e modellare il mondo fuori dal teatro. Il teatro si è riempito anche dei suoni dei musicisti, dell’ensamble vocale, delle parole dei testimoni e delle testimonianze di chi crede che da quella storia si può ancora imparare.
L’interlocuzione è stato un tratto pregnante della gestazione e della realizzazione del progetto. Da quella fatta con la direzione del teatro a quella con la cittadinanza. Se volevamo superare i “limiti” dello spazio/tempo teatrale avevamo bisogno dei contributi di ognuno, esperto e consapevole di differenti aree di competenza, di diversi sguardi sulla realtà. Staff artistico del teatro, produzione, ufficio stampa, ufficio relazioni con il pubblico, ufficio tecnico e, non ultimo, Marco Paolini. Con quest’ultimo abbiamo avuto numerosi ed importanti confronti sui temi, gli obiettivi, i contenuti… quasi mai sulle soluzioni sceniche che ha generosamente e assertivamente demandato, con fiducia e rispetto mio e di ogni artista coinvolto, nella ferma convinzione che l’autenticità dei propositi ci avrebbe guidati a delle scelte adeguate. Il dialogo con le e gli artisti che hanno abitato lo spazio del racconto è stato forte, ci siamo ritrovati a riflettere ed ad interrogarci, ognuno con la propria sensibilità, ad analizzare ed approfondire; malgrado le differenti specificità artistiche, con tutte e tutti abbiamo convenuto che il linguaggio più coerente con gli obiettivi generali che ci proponevamo fosse quello tra i più semplici ed antichi degli esseri umani: la lettura, leggere in coro, quello straordinario esercizio di ascolto e partecipazione democratica in cui si diventa un po’ più di noi stessi.
Con medesimo spirito è stato fondamentale il dialogo aperto con le associazioni del “mondo fuori dal teatro”. Primo in ordine temporale è stato quello avviato con l’associazione “Bellunesi nel mondo” che ci ha restituito una dimensione concreta, quotidiana e dunque reale della storia. A seguire, il confronto con le altre realtà attive nel territorio che ha confermato quanto fosse alto il grado di responsabilità che ci si poneva di fronte: la maggior parte delle persone incontrate conoscevano il nome “Vajont”, a cui associavano una terribile disgrazia, ma quasi nessuno ricordava o conosceva i contorni di quella tragedia. A titolo d’esempio, basti pensare che quasi tutti erano convinti che la tragedia fosse stata causata dal crollo della diga e non dalla frana e, dunque, dalla conseguente “onda”
che ha travolto e annientato migliaia di persone. Perché raccontare ancora? Abbiamo avuto una risposta da tutti quei gruppi animati dalla ferma volontà di conoscere, approfondire e farsi portavoce di una collettività sempre più consapevole dei rischi idrogeologici e delle sfide climatiche che stiamo affrontando che ci obbligano a non rinviare più, ad agire presto e subito.
La convinzione e la determinazione di voler correre il rischio di parlare insieme, di mettere corpo, faccia e voce in un’azione teatrale civile partecipata sono stati i ventricoli pulsanti dell’intero percorso.
Oltre mille e duecento persone (tra palco e platea) hanno agito insieme seppur con ruoli differenti. Ne è stata una dimostrazione la reazione spontanea delle spettatrici e degli spettatori che, allo scoccare delle 22.39 segnalato in teatro dal suono delle campane di Longarone, si sono alzati in piedi eliminando ogni divisione tra palcoscenico e platea, tra teatro e mondo fuori.
L’esperienza che abbiamo vissuto insieme con ognuna delle centinaia di persone coinvolte – che, anche nei giorni e nelle settimane successive al 9 ottobre, hanno continuato a parlare, scrivere e rendere pubbliche le problematiche che una storia come quella del Vajont ha fatto emergere o rinforzato – ci ha confermato che l’urgenza e la consapevolezza dei rischi e delle sfide della contemporaneità sono sempre più diffuse tra la popolazione ma che necessitano ancora di approfondimenti e soluzioni adeguate; e che il teatro può ancora essere il luogo in cui queste sfide incontrano strumenti ed occasioni di miglioramento della realtà capaci di s-travolgere il tempo presente.
Michele Dell’Utri – regista – Piccolo Teatro di Milano
Guarda il programma sul sito del Piccolo Teatro di Milano
foto di © Marta Cervone