L’ordine di grandezza Pensieri su Vajonts23
Così è stato fatto: 150 teatri, teatrini, sale e auditorium di tutt’Italia, da sud a nord, hanno raccontato all’unisono la storia del più grande disastro innaturale dei nostri tempi, a sessant’anni dall’evento.
Ed è stato fatto anche così: 150 gruppi di artisti hanno trasformato lo storico monologo sul Vajont di Marco Paolini, trent’anni circa dopo il suo debutto, in un racconto collettivo, in un coro di cori, aperto, accogliente e liberamente interpretato.
Sono due fatti che richiedono riflessioni distinte perché appartengono a due diversi ordini di grandezza del senso di questo progetto.
Il primo
Nel mio percorso d’artista ho incontrato la storia del Vajont da vicino quando fui, a metà degli anni novanta, una appassionata allieva di Marco Paolini e Gabriele Vacis. Fui portata da eventi che non racconto a rileggere alcune delle fonti documentarie da cui Marco e Gabriele avevano attinto, le testimonianze dei sopravvissuti, le dichiarazioni dei geologi e degli ingenieri, a ripercorrere le strade di Erto, Casso e Longarone e poi a scoprire la vita e gli scritti di Tina Merlin. Era la metà degli anni novanta, non avevo ancora il telefonino, non esisteva google, e nei teatri italiani arrivava il teatro di narrazione e il teatro civile. La vicenda della costruzione della diga più alta del mondo conclusa con il disastro della frana ci pareva, nella sua immensa tragicità un monito impossibile da scordare, un errore che mai si sarebbe potuto ripetere. Avevo 26 anni e una forma biologica, ormonale, radicale di speranza nel cuore e di fiducia nel futuro. Nelle sale dei teatri ascoltando Paolini, eravamo lì a fare della memoria uno strumento di giustizia, a ricordare i morti per onorare i vivi, perché fosse più determinata la cura e la tutela della vita di fronte al profitto, all’avidità, al potere.
E in aggiunta, quel racconto, quella potente testimonianza, apriva davanti ai nostri occhi la possibilità di essere artisti e cittadini, teatranti e testimoni del presente, virtuosi del gesto e innamorati del senso.
Torniamo a VajontS 23 e alla serata del 9 ottobre che ho avuto l’onore, davvero l’onore, di immaginare e coordinare, rispondendo alla chiamata di Fabbrica del Mondo, per il Teatro Stabile del Veneto.
Io quella storia la conoscevo già nei dettagli, e con la sua memoria e il suo peso civile ci aveva già fatto i conti. Ma mentre la storia è sempre la stessa io no, non ero più la stessa persona. Dopo trent’anni circa mi sono ritrovata davanti al Vajont con la stessa attenzione e rispetto ma al contempo con un animo più amaro e disilluso. Le vicende nazionali e globali dell’ultimo decennio e la loro narrazione pubblica, l’emergenza climatica, la gestione della pandemia, le guerre che ci hanno travolto, la disumanità e gli egoismi dei governi nazionali davanti alle sofferenze dei popoli, hanno sfinito la mia fiducia generale nel sistema. Raccontare la storia del Vajont oggi e scoprire di avere questo nuovo senso di impotenza nel cuore, questa amarezza, questa mancanza di speranza… non è stato facile. Non per me almeno.
Nei giorni successivi alla serata avvenuta a Padova, al teatro Verdi, ho archiviato in fretta l’esperienza per non sentire quello che oggi non sento più.
Il secondo
Il monologo di Marco Paolini durava quasi tre ore e alla fine sentivi chiaramente che ogni minuto trascorso ad ascoltare quella storia infinita era stato necessario. Facevi esperienza della fatica della realtà: infiniti aspetti della vicenda venivano considerati e aprivano a numerosissimi altri dettagli. Date, nomi, fatti, e ancora… date, nomi, fatti e ancora e ancora e ancora. Tutti, nessuno escluso, determinanti e necessari a definire le ragioni di una strage di duemila persone, ignare e innocenti. Il passaggio di informazioni concrete e dettagliate, accuratamente sviscerate e dipanate con un colossale sforzo di chiarezza e sapienza drammaturgica, e attorale, da parte di Marco, mettevano lo spettatore a contatto con la “potenza della conoscenza”. Un’esperienza che nutre di senso il nostro stare al mondo e da cui non si torna indietro: conosco – precisamente conosco – quindi posso partecipare, posso prendere una posizione, anche io esisto. Il pubblico perdeva quindi, senza accorgersene, il ruolo dell’ascoltatore e diventava esso stesso un testimone. Per il progetto Vajonts23 quelle quasi tre ore si sono ridotte a un ora e mezza di contenuti. Una sintesi necessaria per rendere friubile, in forma di lettura corale, una narrazione complessa.
La sintesi drammaturgica, che quasi sempre mi appare un alleata preziosa, qui però mi è parsa una seduttrice vigliacca. Ci ha permesso di cantare questa storia, ci ha reso partecipi, cori di cori, voci su voci, ci ha concesso di sentirci uniti e vicini nello sforzo del ricordo, ma ha depotenziato la poetica della realtà, quella così evidente nel monologo originario, restituendo di conseguenza al pubblico il più confortante ruolo di ascoltatore.
E infine sull’interpretazione.
Ciò che più conta nella narrazione teatrale di quello che un tempo non ci vergognavamo a chiamare teatro civile, è che l’interprete non interpreta, no: testimonia. E’ lui\lei, proprio lui\lei, singolare, individuo, che si espone in qualità di persona, prima che di artista, e rende l’atto teatrale un atto di testimonianza. Testimonianza nel senso più ampio possibile: poetica e politica. Lo fa aderendo a ciò che dice perché lo conosce, lo sceglie, ne sente l’urgenza. Marco Paolini trent’anni fa lo ha fatto, lo ha fatto proprio così, mettendo a disposizione la propria personalità e persona.
In una lettura a leggio corale, preparata in due giorni di prove, come si può ritrovare la dimensione della testimonianza veicolata dall’urgenza personale? Non è possibile. Quello che abbiamo fatto, con tutto il cuore, l’umiltà e l’energia possibile, è fare del buon teatro, al massimo delle nostre possibilità contando sulle abilità attorali e la generosità di tutti: attori e attrici, musicisti, allievi, tecnici, maestranze e produttori.
È stato bellissimo per noi e spero anche per il pubblico. Ma è un’altra cosa.
Giuliana Musso – regista – Teatro Stabile del Veneto – Teatro Verdi, Padova