DIARIO DI PERCORSO di Daniela Nicosia – QUALCUNO CANTAVA… – Tib Teatro
PER PROGETTO VAJONTS’23 – CASA DELLE ARTI- SPAZIO EX – BELLUNO 9 e 10 OTTOBRE 2023
Piove senza sosta da tre giorni, stanotte un bombardamento dal cielo, tuoni a raffica, mi sveglio.
Penso: siccità e alluvioni stanno insieme anche se pare inconcepibile. Grazie Marco.
Comincio da qui questo “diario”. Grazie Marco e Marco per avermi permesso di entrare nelle maglie di una tragedia che conoscevo, ma non così. Nel ’63 ho otto anni, vivo a Roma, ricordo i telegiornali in bianco e nero, le immagini del fango-bianco, i cadaveri bianchi di fango, l’allarme in famiglia – gli zii abitano a Belluno – le telefonate col centralino (com’era allora con la signorina che diceva “le passo”) ma quella volta no, erano saltate le linee telefoniche, e poi mio padre, allora vicesegretario della CGIL, inviato a Longarone, per capire cosa è successo, di chi è la responsabilità…
Grazie, Marco e Marco, per le parole del vostro testo dentro alle quali ho viaggiato per un mese.
Una notte d’agosto, a casa di mia madre malata di Alzheimer, in solitudine – dopo una lettura frettolosa di Vajonts ’23 – decido di vegliare sul suo sonno malato rivedendo Vajont di Paolini sulla diga. 30 anni fa sulla diga a vedere Vajont non c’ero, mi ero trasferita da poco da Bologna a Belluno, mi era appena stata proposta la direzione del teatro, ero sola quella sera, con mio figlio piccolo, meno di tre anni; ospiterò lo spettacolo, tempo dopo, al Teatro Comunale, che ho diretto a lungo. Lo rivedo ora, in questa notte d’agosto al pc, un’altra solitudine, un altro tempo, in mezzo tanta vita… C’è silenzio in casa, alla Dosolina, mia mamma comincia i suoi soliti deliri notturni, interrompo… poi riprendo e le due ore, dello spettacolo, diventano tre e trascorrono comunque… Vorrei dormire, ma non posso staccare gli occhi e il cuore dalla visione, mi prende profondamente, mi trascina con sé. Una forma di teatro così diversa dalla mia, che però riesce ad attraversarmi; non mi assomiglia, eppure mi incanta. Riconosco tra il pubblico tante persone, bellunesi che allora non conoscevo, oggi sì, qualcuno non c’è più, qualcuno mi è stato amico negli anni, altri no, li conosco solo di vista, come accade nei paesi. Ci si saluta pur senza conoscersi, come sui sentieri. Questa è una terra gentile, l’ho sempre pensato, fin dai primi tempi della mia migrazione in Veneto, una terra a volte persino troppo gentile…
Mi immergo nel testo, poi inizio le ricerche, le fonti, le cronache, i filmati per capire la dinamica della caduta del Toc, le altezze, gli svasi e gli invasi, il by pass; poi leggo e ascolto le testimonianze, localizzo i paesi. Ci sono stata più volte lassù da che abito qui, ed anche prima, ogni estate, con mamma e papà – a trovare gli zii e poi la nonna, in casa di riposo, a Belluno – da Roma a Belluno (e si facevano le curve del Fadalto, e ci si fermava a vomitare per quelle curve, allora non c’era l’autostrada) e in quelle estati era immancabile la gita in Cadore, ad Auronzo, dove i miei erano stati in viaggio di nozze alla Pensione Serena (forse sono stata concepita qui, forse a questo è dovuto il mio attaccamento a questo Veneto di confine); oppure la gita in Comelico a Santo Stefano di Cadore dove papà di diciasette anni era stato rastrellato dai tedeschi e poi rilasciato per miracolo, perché quando le SS avevano fatto la conta, tra quegli uomini tenuti sotto il tiro delle armi, in piedi, per l’intera giornata, lui era capitato tra i no, un gioco estremamente crudele uno si e uno no, i sì sono finiti ad Auschwitz .
E mentre si andava in gita, da sotto, lungo la statale, guardavamo ogni volta, con lo stesso stupore lei: la Diga, il capolavoro di Carlo Semenza.
A scuola direbbero che sto andando fuori tema: “Cosa c’entra questo col diario per Vajonts ’23?”. Per me c’entra, profondamente, perché mentre scrivo rintraccio legami con questa terra non mia, rintraccio il perché di quella necessità artistica di raccontare questa storia, dopo 60 anni, necessità sorta in me in quest’altra estate così diversa, così lontana da quelle felici di bambina in gita, una storia che ha cominciato a vibrarmi dentro, in quest’estate strana in cui mi riscopro figlia e allo stesso tempo madre di mia madre, ora che lei non è più autosufficiente.
Rileggo il testo di Paolini e Martinelli, e lo farò più volte da sola e poi nei primi incontri con gli attori a settembre. Il primo incontro è online leggo la poesia di Kavafis Per quanto sta in me – la prima suggestione avuta nell’accostarmi a questo lavoro – ci dice che non dobbiamo sciupare la vita, che dobbiamo fare la nostra parte, e questa volta, penso, ancor prima che come artisti, come cittadini. Questo il mio sentire da subito, insieme ad un senso di appartenenza alla rete di Vajonts ’23, insieme al bisogno autentico di fare la mia parte come cittadina e come artista, con i mezzi di quell’arte che da più di trent’anni compone la mia vita lavorativa e personale, con i miei strumenti, quelli della scrittura e della scrittura scenica, quelli potenti del teatro che declina le emozioni.
Il gruppo artistico e organizzativo di Tib Teatro mi sostiene, si crea un momento unico di vicinanza, – quel “catarsi” che tanto peso avrà nel mio approccio a Qualcuno cantava – decidiamo tutti insieme che lo faremo questo lavoro, tutti professionisti e in questo caso tutti volontari: e la mia necessità, l’io diventa un noi. Le risorse non ci sono, e tuttavia la cooperativa si farà carico dei costi per il video, dei costi della Casa delle Arti che ospiterà prove e spettacolo, dei costi per la comunicazione e per l’accoglienza delle persone comuni, che dal primo momento sento necessarie a questo racconto corale che tutti insieme vogliamo realizzare. Voglio scrivere sulle persone che sceglieranno di esserci, attori e non attori, voglio scrivere sulla persona, questa urgenza mi è ben chiara.
In quei primi giorni di studio solitario a tornarmi in mente erano le stragi di Stato “ Piazza Fontana” “ Bologna 2 agosto”, e mi chiedevo: perché?
Poi ho capito: la tragedia del Vajont è stata una strage di stato; poi, stanotte, sotto il bombardamento dei tuoni, insieme a Vajont, ho pensato a Gaza: un genocidio è in atto. E Vajont è stato un genocidio, come scrisse allora Tina Merlin. Oggi cosa facciamo per Gaza? Cosa possiamo fare? Non lo so, mi sento inerme, sconfitta.
“E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo
per quanto sta in te: non sciuparla
nel troppo commercio con la gente
con troppe parole e in un viavai frenetico.
Non sciuparla portandola in giro
in balia del quotidiano
gioco balordo degli incontri
e degli inviti
sino a farne una stucchevole estranea.”
Per Quanto sta in te di Kostantinos Kavafis
Questa poesia è stata per me una guida potente all’origine di questo percorso. Si tratta di impadronirsi del presente, proprio come scrive Seneca a Lucilio “solo il tempo è nostro” e sempre Seneca nel De brevitate vitae afferma “Nessuno ti restituirà i tuoi anni, nessuno ti restituirà te stesso”.
Mi tornano in mente questi due scritti così lontani tra loro nel tempo, perché penso che entrambi ci raccontino quanto tutto dipenda da noi, affinché la vita non cada nell’abisso dell’insensato.
Se tutto sta in noi, per Vajonts ’23 siamo chiamati a fare la nostra parte con i linguaggi della scena che passano per il corpo e le emozioni, per la pelle viva delle persone e agiscono, per questa ragione, quali amplificatori di senso.
Al primo incontro di persona, alla Casa delle Arti, ho condiviso con gli attori e con tutti i partecipanti (Bambine del Vajont di Codissago e allievi della Scuola di Teatro AttoZero) questi miei pensieri, ed ho aggiunto che non si tratta di celebrare, leggendo qualcosa più o meno bene. Si tratta di far depositare in noi, nel nostro corpo, nella nostra mente, e direi nella nostra pelle, l’urgenza di racconto, un racconto necessario. Non solo per non dimenticare ma perché possa parlare al presente, perché la memoria sia motore del nostro agire al presente.
Quell’emergenza, quella sottovalutazione (colpevole) di allora, corrisponde purtroppo alla sottovalutazione di oggi rispetto ad una emergenza evidente quale la crisi idrica (emergenza che anche l’età anagrafica sposta in termini di considerazione). Agli over sembra lontana, ai giovani produce ansia; trent’anni possono essere vicinissimi o lontanissimi, dipende da dove li guardi, dipende dal tuo tempo, dalla tua età e tuttavia l’emergenza c’è per tutti: giovani e meno giovani, e riguarda tutti allo stesso modo, chiama in causa il nostro senso di responsabilità e di appartenenza alla Fabbrica del Mondo .
Pertanto noi da artisti e da cittadini siamo qui per dar voce alle emergenze del presente, attraverso la memoria del passato. Si tratta di ricordare di riportare al cuore. Il pensiero, la ragione viene dopo.
“Chiedo che il vostro esserci in questo racconto corale, sia per ragioni profonde, lasciando da parte ogni narcisismo (c’è la diretta Rai – la diretta non ci sarà -) consapevoli che in 130 teatri italiani il 9 ottobre ’23, si svolgerà un unico racconto, declinato in forme diverse a secondo dei diversi contesti, che il 9 ottobre faremo comunità, tutti insieme. Ciò che faremo resterà nel web attraverso il sito de La Fabbrica del Mondo, resterà nel tempo, quale segno, testimonianza, comune sentire di fronte alle emergenze del presente.
Per me, ripeto, è fondamentale che rintracciate in voi stessi, il bisogno, l’urgenza di raccontare questa storia. Al come ci penso io.
Lavorerò sul testo di Paolini e Martinelli partendo da voi, dalle vostre urgenze, dal vostro essere come persone e come artisti, facendo innesti su quel testo, montando una storia che nasce sulle persone e dalle persone coinvolte. Creando con voi, insieme a voi, attori e cittadini, una partitura corale dove il singolo si dissolve, si mescola e si esalta nell’incontro con l’altro, con la pluralità delle voci coinvolte in un racconto etico, un racconto che agisca sui sentimenti, che generi emozioni. Nel teatro che amo, e in quello che creo, le emozioni sono il fulcro, il ragionamento viene dopo, sempre.
E’ necessario evitare la retorica, e praticare l’esercizio della misura.
Limitarsi a leggere quel testo non è l’obiettivo. Dobbiamo farlo vivere in chi ci ascolta, nelle emozioni di chi parteciperà all’evento.
Faccio un esempio: alle 22.39 ci si ferma in 130 teatri in contemporanea, in silenzio, ma come sarà il nostro silenzio? Come ci fermeremo in ascolto di un silenzio che unisce 130 storie? Partiremo proprio dalla qualità del nostro silenzio, per scoprire a ritroso come dar voce a quel silenzio, prima delle 22.39.
Creerò pertanto su di voi e con voi, secondo quanto proporrete, una partitura narrativa, una drammaturgia scenica che muove da quel testo e ne compone passaggi e immagini. Le immagini che vi abiteranno nel narrare non si limiteranno a raffigurare il mondo, ma a formarlo insieme a chi vi ascolta e vede i paesaggi evocati dal vostro narrare. E il racconto lo fanno le pause, significative quanto le parole, necessarie a farci vedere ciò che voi per primi vedete.
Per questo propongo un percorso a step. Se qualcuno non si riconosce in questo percorso, in questo approccio, non è obbligato a starci, ma soprattutto non è obbligato a starci se non riconosce in sé stesso quest’urgenza di racconto.
E’ necessario capire e vedere ciò che narriamo, è necessario tempo affinché quella frana si depositi in noi (come si è nuovamente depositata in me durante questo periodo di studio) e abitare il testo, con tutta la pienezza del nostro essere – col corpo, la voce, le nostre emozioni – è necessario mettere le mani nel fango e sporcarsi l’anima per riportare al cuore quella tragedia annunciata, i cui segni si sono sottovalutati, proprio come oggi accade ancora.”
Agli attori ho proposto:
• Entro il 14 settembre:
– lettura individuale del testo di M.Paolini e M. Martinelli
-visione del filmato disponibile su youtube di M.Paolini “Il racconto del Vajont”
-ricerca materiali documentari e video sul tema
-contributi personali sul testo di riferimento già citato
• Prima tappa:
14 e 15 settembre: primi incontri, solo attori, per rielaborazione comune dei materiali e lettura condivisa del testo di Paolini e Martinelli a seguire input di ricerca da parte della regia
• 14 settembre rielaborazione dei contributi di pensiero emersi da ognuno e lettura condivisa del testo Vajonts ’23. Propongo agli attori una lettura a più voci, con passaggio di parola guidato da me, questo implica un ascolto attivo, bando ai personaggi. Uno stimolo sonoro sarà l’input per il cambio voce, a prendere parola sarà l’attore che sente di voler dire proprio quella frase là, se ci saranno sovrapposizioni qualcuno si tirerà indietro a favore dell’altro. Vengono appuntate da Isabella le ultime frasi pronunciate via via, da ogni attore, quelle che coincidono col cambio voce; ne scaturisce un primo frammento di testo, denso di significato, già così. A Isa viene affidata la ricerca di tutte le frane da Pontesei in poi, ad Ettore quella sulla partita di coppa del 9 ottobre, Ettore proporrà anche due filmati significativi per il nostro lavoro, il cui registrato entrerà a far parte dello spettacolo, ma oggi ancora non lo sappiamo. A fine lettura “brainstorming” sui passaggi che ancora non ci sono pienamente chiari. Chiedo agli attori: “Che ce ne facciamo di questo testo? Cosa vogliamo dire e perché vogliamo dire proprio quelle cose lì? Nel testo sono presenti le “Paolinate”, battute ironiche, nate sicuramente da improvvisazioni e memorie di Paolini, lui le dice con naturalezza, sono nel suo dialetto e nel suo linguaggio scenico, gli appartengono. Ripeterle, a mio avviso, se non vi nascono quale necessità narrativa, ha poco senso, si corre il rischio di fare una cattiva imitazione di un modello, di un canone, quindi è preferibile rinunciarci.” E aggiungo “Questo lavoro ha un intimo nesso col concetto di cura, saremo in tanti in questo spazio e per più giorni, la cura comincia da qui, da noi, dalla cura del nostro spazio e delle persone che lo abitano, vorrei che il nostro percorso comune fosse abitato dalla gioia, sappiamo che ci saranno momenti di crisi, di fatica, di difficoltà, ma se siamo abitati dalla gioia, abiteremo con gioia quanto andremo a creare”. Chiedo alla mia assistente Isabella di tenere un diario umano di questo percorso.
• 15 settembre l’incontro si apre con la comunicazione che il 23 incontreremo le Bambine del Vajont di Codissago, donne che al tempo della tragedia erano bambine. Fino a qualche tempo fa, non si conoscevano o, seppur conoscendosi, non avevano mai condiviso la loro memoria. Dopo 60 anni, e dopo un incontro casuale nel quale hanno scelto di raccontarsi il loro vissuto, oggi sta per essere pubblicato da Fondazione Vajont un libro che raccoglie le memorie di ognuna, sono 25 persone. Sette, dopo l’incontro del 23, sceglieranno di essere con noi sul palco, e porteranno frammenti, ricordi del loro 9 ottobre. Ho chiarissimo fin da ora una scena che vorrei creare, le vedo accompagnate da bambine, anzi saranno le bambine a prenderle per mano e ad accompagnarle in proscenio, ogni bambina dirà “io c’ero” poi ogni donna prenderà parola.
Così come ho chiaro fin da ora che la Dosolina sarà Clara, una delle attrici in scena, una donna in nero, silente, che parla con gli occhi.
Prima di riprendere la lettura del testo Vajonts ’23, lancio la parola profitto: gli attori, devono esprimere un loro pensiero su questa parola, è un esercizio di libera associazione, non una ricerca. L’esercizio mira alla creazione di una catena di parole; per domani invece le parole su cui produrre associazioni sono: rabbia e frana. Viene riletto il testo ma questa volta non sarò io a guidare il passa parola, ogni attore prenderà voce quando sente necessario dire proprio quelle parole e si ferma quando non rintraccia più questa necessità, l’importante è il flusso, il fluire delle voci e delle emozioni, una staffetta dettata dall’urgenza del dire, ci si può sovrapporre, dire anche solo una parola, o dirne alcune in coro, l’importante è l’assoluta concentrazione e l’ascolto dell’altro.
Gli attori nei giorni che verranno sono invitati a farci pervenire le frasi che di questo testo sentono più loro, quelle che sentono il bisogno di dire. E oltre a queste, che chiameremo le frasi necessarie, anche quelle che sono rimaste loro maggiormente impresse, quelle che ritengono importanti anche se non hanno l’esigenza di dirle. Sono inoltre invitati anche ad agire da dramaturg, proponendo alla regia immagini, video, poesie e quant’altro.
A conclusione di questo primo step, confermo che il processo di lavoro che mi interessa è una scrittura sulle persone, non mi basta mettere in scena il bellissimo testo che generosamente ci è stato fatto pervenire. Creerò un nuovo testo attraversando quel testo in ragione dei partecipanti e delle modalità espressive che mi sono più proprie. Vedo già le prime scene, la nostra azione corale comincerà da fuori, sulle mura esterne del teatro ci sarà proiettata la scritta “9 ottobre 1963” e ci sarà una musica, so qual è, mi suona dentro. Il pubblico entrerà tutto insieme, in silenzio, troverà gli attori già disposti sul palco, non voglio il rito ciarliero del teatro, la materia del testo originario non lo consente. “Siamo qui per ricordare, per riportare al cuore attraverso un rito laico, per dar vita ad un racconto etico. Attenzione però a non prendersi troppo sul serio, intendo dire che non voglio toni pietosi, ma un dire partecipe, fermo, scaturito da una reale urgenza di racconto.” Non cerco l’interpretazione del testo originario o di quello che nascerà, cerco una verità dell’essere, di chi popolerà il nostro palcoscenico: attori e non attori, bambini, giovani, adulti, anziani. Cerco la verità dell’essere delle persone. Cerco normalità. Perché penso, sento che, oltre alle macro cause e ai macro effetti, quella catastrofe abbia spezzato, interrotto per sempre le piccole azioni che ci sono naturali, le cose normali della quotidianità di ognuno. Quei dettagli che compongono l’esistenza delle persone. Il 9 ottobre 1963 alle 22.39 a Longarone qualcuno cantava una ninna nanna, qualcuno giocava a carte, i più seguivano la partita di coppa del Real, e qualcuno faceva l’amore… forse … era un mercoledì… Questa la prima frase del mio testo.
• Seconda tappa
21-22-23-24 settembre elaborazione e composizione materiali emersi dal lavoro degli attori. Queste sono giornate decisive per mettere a fuoco il progetto. Ho già la prima bozza del nuovo testo, non ancora completo. E si comincia con le prime improvvisazioni: la prima è “catarsi”. Racconto agli attori come la frase che più mi sia rimasta dentro del testo di Paolini, sia quella sul “catarsi”, dopo l’episodio della Dosolina, una frase profonda di una bellezza assoluta, una bellezza che ferisce. Da qui nasce il mio racconto “è necessario catarsi” (come dirò anche nell’assemblea del 16 ottobre allo Strehler a Milano) perché in quel trovarsi, ri-trovarsi, ri-conoscersi sta la prospettiva, la possibilità di guardare avanti, perché catarsi nella tragedia greca è liberazione delle passioni, non dalle passioni, e il termine passione ha nel suo etimo passio, dolore, sofferenza. Attraversare il dolore, esternarlo, cambia lo sguardo, ci mette in relazione con l’altro e ci dà la forza per stare, pur senza dimenticare, nell’impegno che il presente richiede. Catarsi è un tema di improvvisazione complesso, chiedo improvvisazioni solo corporee, la parola va usata solo se è un’assoluta necessità: i sette attori si muovono nello spazio ognuno con la sua proposta, ma sono isole, sono soli, non sanno Catarsi-Trovarsi, propongo allora l’esercizio del leader a partire da un gesto particolarmente efficace di Clara, la futura Dosolina, il gruppo la segue e poi l’esercizio si sviluppa . Gli occhi e le bocche si aprono al sorriso mentre prefigurano l’idea del contatto. Il contatto porta abbracci, le mani si intrecciano mentre le braccia e le gambe si tendono in un gioco di squilibri, si crea una catena: mani, braccia, gambe che avviluppano, si creano figure scomposte come nella Danza di Matisse e a tratti ieratiche come nelle Tre Grazie di Canova. Da questa improvvisazione scaturirà la scena 7 tra Clara ed Alice, introdotta dalle battute di Vassilij ed Alberto, una scena emotiva come saranno tutte le prime dello spettacolo: l’avanzata della Dosolina e quella delle Bambine del Vajont con i loro frammenti di testo, proprio quelli che pronunceranno d’istinto nella prima prova il 2 ottobre; su quei testi farò degli interventi minimi, per accentuarne il ritmo e l’incisività, senza troppe preposizioni, aggettivi e verbi al passato remoto!
Sarà una scelta quella di concentrare tutte di seguito, all’inizio dello spettacolo, le scene emotive e di movimento, con la musica che ne amplifica l’impatto, nella seconda parte dello spettacolo, l’emozione sarà suscitata invece solo dalla parola, dalle voci e dall’orchestrazione delle stesse. La distribuzione, cui arriverò solo domenica 24, sarà infatti dettata sostanzialmente dalla qualità delle voci che si alternano oltre che dai registri più consoni a quell’attore.
Domenica 24 è il giorno della scoperta delle necessità interne a questo racconto: oltre alle pause – sempre così determinanti in narrazione – la pressoché totale immobilità dei narratori. Questa storia non richiede l’usuale messa in piedi del testo, non si puo’ comporre secondo l’usuale geografia dei movimenti. Il movimento sarà dato dall’incedere, dal ritmo delle parole, e dall’alternarsi delle voci. Da quella domenica tutto mi sarà più chiaro. Più facile.
Ho già fatto disporre in scena una scrivania nera che abbiamo in magazzino, una sveglia bianca, alcuni cubi neri e un elemento asimmetrico sulla destra, diagonalmente, pressoché in proscenio, al vertice opposto, a sinistra, 21 sedie nere, disposte a forma di V da 1 a 7, saranno abitate dal coro di sole donne in nero, composto da 2 attrici e 19 persone di ogni età, comprese le Bambine del Vajont, le bambine e i giovani della nostra scuola.
La V è il segno scenico che individuo già venerdì 22, quando faccio disporre in scena una serie di vecchi libri, in file ordinate, a triangolo, il cui vertice è sul fondo scena, al centro, là apparirà Tina Merlin, uscendo dal coro (sul lato sx della V) e poco distante verrà posizionata la lavagna, trovata in un vecchio magazzino scolastico, davanti alla lavagna 2 bambini seduti a terra giocano a monopoli, come se quel 9 ottobre alle 22.39 stessero giocando prima di essere spazzati via dall’onda. Un attore e un altro bambino (che casualmente gli somiglia, ma che poi non parteciperà allo spettacolo per febbre) saranno alla scrivania, narreranno sostanzialmente di date e di dati di cronaca, sui cubi a destra altri 4 narratori, due donne e due uomini, racconteranno le tante storie che compongono questa storia, racconteranno le persone, al loro racconto, a tratti, faranno da contrappunto i gesti del coro. Questi gesti nasceranno dalle improvvisazioni “un vuoto a perdere” “nascondi – copri” ecc… Questi giorni saranno importantissimi ai fini del lavoro. Sabato 23 incontreremo le Bambine del Vajont, arrivano in 25, ed è naturale raccontarsi anzi sono un flusso inarrestabile di parole, tutte aderiscono con entusiasmo al progetto, e il giorno dopo una di loro ci porterà persino una cassetta di uva – bio! E’ più semplice di quanto pensassi. Apprezzano il nostro approccio sincero, l’onestà del lavoro che intendiamo fare, percepiscono rispetto. Il termine spettacolo mi pare inadeguato, ho pudore in questo contesto, per questa storia, ad usare questo termine. Riconosco al teatro la sua enorme spinta propulsiva, il teatro ha in sé degli strumenti d’espressione unici e profondi che debbono e possono, come accaduto per Vajonts ’23, essere messi al servizio di un sentire comune. Il teatro agisce sulle emozioni. E ci emozioniamo quando chiedo di azionare un grande ventilatore posto in quinta, quando le pagine dei vecchi libri disposti a terra simmetricamente – a disegnare quella strana V (la diga?, la Forra del colomber? la V di Vajont?) – cominciano a muoversi da sole per il vento che le colpisce, e il suono rievoca quel vento, quel vento che non si può raccontare…
Questa sarà la prima scena dello spettacolo: solo pagine (le tante parole spese sul Vajont?) sfogliate dal vento, il cui suono sarà sempre più intenso nell’immobilità generale – ventotto attori fermi sul palco, assorti. Poi quando il vento degraderà, si alzerà un canto lieve…
La domenica 24 lavoreremo a tempo pieno, mattina, pomeriggio, sera, facendo lo slalom tra le disponibilità dei partecipanti, arriveranno anche gli allievi della nostra scuola di teatro, adulti, ragazzi, bambini e le persone che desiderano partecipare.
E’ una domenica di sole: fuori la comunità musulmana, che allo Spazio-Ex ha edificato la sua moschea, prepara cous cous, fagioli e tè caldo, un pranzo sotto il sole a cui tutti siamo invitati. Il piazzale davanti alla Casa delle Arti si riempie di tavoli, ci chiedono microfoni e stoffe per allestire un palco, glieli prestiamo, poi in pausa pranzo ci uniamo a loro, gustiamo il cibo che hanno preparato, ai tavoli donne col velo e bambini dagli occhi intensamente neri, famiglie di ogni nazionalità, e mi ritrovo a pensare quanto sia facile, volendolo, comprendersi, condividere lo spazio e il tempo. Quanto sia possibile catarsi.
Un dono ulteriore che il percorso verso Vajonts 23, sa donarci.
Terza tappa
2-3-4-6-7-8-9 ottobre: prove
9 e 10 ottobre: spettacolo alla Casa delle Arti, uno spazio rigenerato da Tib Teatro, una ex caserma abbandonata da 20 anni, riconvertito da Caserma a Centro Culturale Permanente, un bene comune, un luogo significativo per e della comunità bellunese.
Il 2 ottobre inizieranno le prove vere e proprie. Le prime sono dedicate alle Bambine del Vajont, spieghiamo loro come stare in scena, l’energia, la postura, lo sguardo, quell’ascolto dell’insieme necessario a raccontare tutti insieme; lo stesso faremo con gli altri partecipanti dedicando loro prove a sé, spiegando ai bambini come esserci e l’importanza del loro esserci, raccontando loro la storia del Vajont, qualcosa di infinitamente più grande e più tragico di quanto le loro giovinezze possano solo immaginare. Soprattutto per loro il 9 e il 10 ottobre alla Casa delle Arti abbiamo intonato il nostro canto. I bambini, quelli che al chi è di scena bisogna ricordarsi di portare a fare pipì. E’ così quando lavori con le persone comuni, devi controllare ogni minimo dettaglio, non dare nulla per scontato. Cura e delicatezza, queste le categorie che ho sollecitato in me per creare Qualcuno Cantava… Cura e delicatezza, queste le parole che meglio esplicitano ciò che desideravo donare agli spettatori, cura e delicatezza nel trattare la tragedia con toni intensi e sommessi, cura delle persone, le persone…, come recita il mio testo. “Anche voi, attori e non attori, adulti e bambini, siete quelle persone cui il testo fa riferimento, e la stessa cura intendo rivolgere in primis a voi, cercando di donarvi un’esperienza che mi auguro possa perdurare sulla pelle viva e nel tempo che verrà. Bisogna tornare sui passi già dati, per ripeterli e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Il viaggio non finisce mai. In questo frammento poetico di Saramago sta molto di quanto condivideremo, con voi e grazie a voi, un frammento che apre un varco rispetto al dolore vissuto e alla sua elaborazione.” Le persone… le stesse che mi sorprenderanno quando al debutto le troverò in camerino tutte insieme, guidate da Clara-Dosolina, intente a fare training con gli attori, in cerchio.
I due bambini che giocano a monopoli, all’inizio pensano di non avere una parte abbastanza importante, spiego loro cosa significa coralità e il loro prezioso far parte di un affresco comune, prezioso quanto il loro ascolto, il loro agire e, a tratti, persino la loro immobilità. Faremo prove dedicate in cui incroceranno sguardi, azioni e tempi con i gesti del coro e le battute degli attori. Poco alla volta, seppur giocando effettivamente a monopoli, capiranno. Sono i più difficili da inserire, ma poi, una volta compreso il loro ruolo nel quadro che tutti insieme stiamo creando, saranno perfettamente a loro agio, e in scena scriveranno nomi e date alla lavagna senza più seguire gli appunti – che, in un primo momento, avevano voluto con sé – solo abbandonandosi ad un ascolto partecipe della storia. Andranno alla lavagna naturalmente, interrompendo il gioco, oppure volgendo lo sguardo, assorto, verso gli altri nei momenti in cui è richiesta l’immobilità, correndo sul posto o ponendo domande, in certi passaggi del testo. Non darò mai in mano il copione alle persone coinvolte, solo agli attori, opero questa scelta perché desidero che siano parte della storia, conoscendola da dentro, senza un approccio critico, senza costrutti mentali. Questa storia va vissuta e capita, così come l’abbiamo declinata, non pensata e letta prima.
Prima delle prove del 2 ottobre ultimerò il testo, non manca molto, solo il necessario passaggio al presente, l’epilogo nel testo originario, quel mettere le mani nel fango, che nel mio testo però non sarà l’epilogo. Nell’ultima scena di Qualcuno cantava… si tornerà alle 22.39 del 9 ottobre quando l’ultima bava di ragno che tiene unita la frana alla montagna si rompe. Per un attimo la frana resta lì. Poi va: accelera. Da 0 a 90 km all’ora in meno di 6 secondi. Compongo e scelgo frasi essenziali, sintesi di quanto sento necessario della sc. 22, 23, 24 di Vajonts ’23, fino ad arrivare a quel Se non hai niente la metti giù vuota, poi, nell’immobilità, il registrato della vera voce della Dosolina e a seguire E facciamoli questi 6 minuti… Tutti gli attori sul palco si alzano, ora sono tutti in piedi, attori e spettatori in silenzio, a lungo, poi mentre riprende lieve il canto iniziale si abbandona il palcoscenico lentamente, uno dopo l’altro gli attori scendono in sala, la attraversano, sul palco solo fasci di luce e i pochi elementi scenici. Le sedie restano vuote, tutte meno una, su cui siede una minuscola bambina, sola.
Nessuno salirà a prendere gli applausi, ma attori e spettatori insieme rivolgeranno un lungo applauso a quel palco vuoto.
In uno di quei giorni tra il 2 e il 9 ottobre, rubo il tempo per andare a trovare mia madre, non la vedo da tempo, è sola con la sua assistente e il suo Alzheimer “Mamma, sto facendo le prove di uno spettacolo sul Vajont.” Tace, come sempre.
“Mamma, te lo ricordi il Vajont ?” apre leggermente gli occhi “E certo, come si può dimenticare il Vajont ”. E se lo dice lei, una professionista della dimenticanza, dobbiamo crederle …..
Daniela Nicosia
Qualcuno cantava… dal testo Vajonts ’23 per la drammaturgia, regia e disegno scene di Daniela Nicosia, è stato creato facendo innesti drammaturgici sul testo originario, scaturiti anche dal lavoro sulle e con le persone coinvolte -attori e non attori-operando scelte narrative che, in ragione di una nuova scrittura, e delle improvvisazioni fatte, hanno comportato la sintesi e l’eliminazione di alcuni passaggi e scene del testo originario. La struttura del nuovo testo ha fatto sì che la distribuzione fosse dettata dalla qualità e dall’alternanza delle voci dei narratori oltre che dai registri più consoni ad ogni attore, e dall’esigenza di creare scene in cui, in assenza di parola, le persone agissero impersonando passaggi narrativi, come la Dosolina e il Catarsi. Qualcuno cantava… è un racconto etico corale che compone passaggi e paesaggi del testo originario e apporti creativi delle persone coinvolte: popolazione civile e artisti. Perché la memoria dia voce alle emergenze del presente, perché forse quella sera qualcuno cantava, perché quel canto, quella voce non vada smarrita.
Il gruppo artistico di Qualcuno Cantava… è composto da 28 persone in scena:7 attori e 21 persone di ogni età, le Bambine del Vajont di Codissago, gli allievi scuola di Teatro Atto Zero e persone della società civile.