L’attore drammaturgo nel Ravennate a sessant’anni dalla grande tragedia: ribelliamoci a sciatteria e superficialità. «Siamo il Paese con più frane in Europa, ce ne sono in media due al giorno»

«Trenta anni fa si raccontava questa storia per dare giustizia a chi non l’aveva avuta. Ma adesso? Che del Vajont c’è tutto su YouTube? Ditemelo voi: che senso ha raccontarlo ancora?», chiede Marco Paolini a medici, infermieri, amici accorsi nella sala riunioni dell’ospedale per vedere e vivere l’anteprima del monologo «Vajonts23».
Ma c’è sì un senso. A partire dalla scelta del luogo di questa anteprima del ritorno, a tanti anni di distanza, dell’epocale racconto che inchiodò milioni di italiani davanti alla tivù per capire cos’era successo quel lontano 9 ottobre 1963 a Longarone dove l’acqua e il fango inghiottirono 1.917 anime.

In Romagna

Lo stesso ospedale Maria Cecilia di Cotignola, tra Faenza e Ravenna, nelle scorse settimane, è stato infatti investito dalla devastante alluvione in Romagna. Dentro, l’attività ad alta specializzazione è ripresa dopo dodici giorni di blocco. Fuori sono stati ammassati i resti dei macchinari annientati dall’irruzione del pantano. Il posto giusto per rispondere alla domanda dell’attore e drammaturgo veneto: ha senso riparlare del Vajont proprio per parlare dei troppi «Vajonts» (plurale) accaduti nella storia d’Italia fino a questo 2023. Ed è da qui che parte l’iniziativa di mettere il canovaccio del nuovo racconto teatrale per cinque voci (numero indicativo) firmato col regista Marco Martinelli e messo a disposizione, senza diritti d’autore, di tutti i teatri grandi e piccoli, pubblici e privati (un centinaio dal Piccolo Teatro di Milano al Teatro Stabile del Veneto, dallo Stabile Torino a quello di Bolzano e così via da Udine a Napoli a Brindisi, con Paolini che parteciperà a una «staffetta» dallo Strehler di Milano) che vogliano ricordare insieme quella che è stata la più grande tragedia idrogeologica di un paese come l’Italia particolarmente esposto.

«Due frane al giorno»

«Da noi cade una media di due frane al giorno», racconta Marco nel suo monologo, «Sono almeno mille anni da quando abbiamo cominciato a registrare le frane, che abbiamo questo conteggio. Abbiamo una frana a pasto e una a cena. Siamo il paese d’Europa che ha più frane di tutti gli altri messi insieme». Ricostruire quel che successe sulle montagne bellunesi non serve solo a ricordare: «Ma a ribellarci. A ribellarci. A ribellarci». Contro la sciatteria di troppi amministratori pubblici. La superficialità di troppi «specialisti» che non lo sono. L’ingordigia di troppi affaristi. La spregiudicatezza di troppi cantori del «fare».
E come sono tanti i nostri «Vajonts» così potranno essere tante le interpretazioni del racconto così che ognuno possa partire dalla storia dell’apocalisse bellunese per ricostruire anche altre tragedie del territorio. Come quella catastrofica del 1998 a Sarno distrutta dopo un insensato assalto edilizio nonostante fosse già stata colpita da 5 frane in un secolo dal 1841 al 1939 e da 36 dopo la II Guerra Mondiale. O quelle troppo frequenti a Messina dove 27 dei 52 torrenti che calano verso il mare erano stati via via tombati così come tombati erano stati i troppi fiumiciattoli della Liguria e soprattutto di Genova. O quella di Soverato dove il torrente Beltrame gonfiato da una bomba d’acqua esondò nel 2000 dalla sua gabbia di cemento e travolse un camping.

https://video.corriere.it/cronaca/annuncio-paolini-in-cento-teatri-tutti-insieme-trasformare-monologo-vajont-un-coro/c68261a6-049c-11ee-b055-cc8350696114

Calamità ed errori

Tutte tragedie dovute sì a qualche calamità naturale ma col concorso di errori inaccettabili dell’uomo. Come successe nel caso del Vajont. Dove la natura ebbe sì un peso ma, come prova Marco Paolini, quella frana che dopo essere lentamente scesa «a un ritmo variabile tra 1 e 3 centimetri al giorno» precipitò quella notte maledetta «da zero a 90 km all’ora, in pochi secondi, più veloce di Usain Bolt», era stata notata, fotografata nei suoi contorni che parevano una specie di M, studiata, denunciata, senza che i chiarissimi segnali d’allarme fossero accolti.
Basti ricordare che il Servizio Geologico di Stato, fondato nel lontano 1873, aveva novant’anni dopo solo una manciata di geologi ed era costretto al «ricorso costante a professori universitari» al punto che quando la Sade iniziò ad avere qualche preoccupazione e chiese il parere di «un geologo di Stato» questi rispose sulle prime di non avere tempo per poi precisare: «Vengo a titolo personale, per farvi un favore, come professionista, ma non potete chiamarmi come Commissione di Collaudo…». Il tutto mentre l’ingegner Alberico Biadene, subentrato nella guida del progetto a Carlo Semenza e Giorgio Dal Piaz, scomparsi dopo avere man mano accumulato dei dubbi, liquidava le preoccupazioni del sindaco e degli abitanti di Erto (che chiedevano «la certezza che il paese non vivrà nell’incubo del pericolo prossimo o remoto») come «affermazioni piuttosto azzardate». I soliti menagramo…

Il racconto

C’è tutto, nel racconto di Paolini. Gli articoli «bellissimi ma sbagliati» di Giorgio Bocca e del bellunese Dino Buzzati («Un sasso è caduto in un bicchiere e l’acqua è uscita sulla tovaglia. Tutto qua. Solo che il sasso era grande come una montagna e il bicchiere alto centinaia di metri e giù, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi…»). Le sciagurate ambizioni dei costruttori della Società Adriatica di Elettricità: «Il Piave, nel progetto SADE, doveva produrre il 15% del fabbisogno energetico italiano. Su un unico fiume». Il «modellino» di dodici metri costruito in un capannone a Bergamo. I test su una possibile frana che si sarebbero rivelati puntualmente sbagliati. La folgorante fotografia del paese di Erto: «850 abitanti, 9 osterie» tra cui quella di «Zibibbo» dove si svolsero le sempre più angosciate assemblee degli abitanti spaventati dalla frana. Gli articoli di Tina Merlin sugli errori e le paure, messi subito sotto processo. Gli incessanti rumori del cantiere: «Il sound del Progresso».
E poi la scoperta agghiacciante a lavori quasi finiti, da parte di due giovani geologi tra cui Edoardo Semenza, figlio dell’uomo forte della Sade, che lì al Vajont c’era stata una Paleofrana, enorme frana preistorica che avrebbe dovuto imporre il divieto di un progetto così ambizioso. E via così, di errore in errore, di superficialità in superficialità, fino al 2 settembre 1963 quando, un mese prima del cataclisma, «il Vajont tira una stecca. Un terremoto forte che si sente anche a Longarone. E che provoca allarme…» E ancora rassicurazioni, rassicurazioni, rassicurazioni…Fino alle 22.39 di quel 9 ottobre di 60 anni fa. L’ora esatta in cui fra quattro mesi il popolo di teatranti mossi da passione civile e riuniti da Marco Paolini per ricordare il passato e spronare tutti a una presa di coscienza sull’acqua, si fermerà nel silenzio per ascoltare i rintocchi della campana del campanile di Longarone recuperato allora dalle macerie.

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