Lunedì, a 60 anni dalla tragedia, in tutta Italia in contemporanea va in scena “VajontS 23”, rielaborazione collettiva del monologo di Marco Paolini. Il commediografo bellunese: “Silenzio alle 22.39”

Marco Paolini sarà “in coro” allo Strehler di Milano – Tommaso Savoia

Ore 22.39 del 9 ottobre 1963: 270 milioni di metri cubi di roccia precipitano nella diga del Vajont, sollevando verso il cielo cinquanta milioni di metri cubi d’acqua. L’apocalisse che nel buio della notte spazza via in pochi istanti interi paesi e duemila vite è uno tsunami di montagna, un’onda mostruosa che scavalca la diga, risale sul versante opposto dove sventra i paesi di Erto e Casso, poi si abbatte lateralmente nella valle del Piave, polverizzando Longarone e i paesi limitrofi, al confine tra Friuli Venezia Giulia e Veneto. La nuovissima diga, allora la più alta al mondo, rimane intatta, monumento alla protervia e alla spregiudicatezza.

A sessant’anni esatti dalla tragedia, il 9 ottobre sera andrà in scena contemporaneamente in 150 teatri di tutta Italia VajontS 23, riscrittura a più voci del celeberrimo monologo scritto trent’anni fa da Marco Paolini: il Racconto del Vajont di allora diventa così “azione corale di teatro civile”, declinando al plurale i tanti “vajonts” e spostando l’accento da ciò che è accaduto a ciò che possiamo ancora prevenire. Non più un teatro di memoria, insomma, ma una sveglia per il presente, come spiega lo stesso Paolini: «Quella del Vajont è la storia di un avvenimento che inizia lentamente e poi accelera, inesorabile. All’epoca i progettisti hanno ignorato i segnali ben chiari e, quando hanno preso coscienza, era troppo tardi. Oggi, in tempo di eccessi climatici, non possiamo ripetere le stesse inerzie di allora: il Vajont racconta non solo ciò che accadde nel 1963, ma ciò che potrebbe accadere a noi in un tempo assai più breve, racconta di segnali da non sottovalutare oggi».

VajontS 23 non è un testo rigido, ma il canovaccio su cui ogni singolo regista o attore o gruppo di teatranti svilupperà liberamente il proprio Vajont personale, chi portando in scena il copione integrale, chi scegliendo alcune parti da alternare a musiche, danze, testimonianze, chi legandolo alle altre “tragedie annunciate” dal 1963 a oggi: in Toscana l’alluvione di Firenze del ’66, in Piemonte la mortale esondazione di Po e Tanaro nel 1994, in Campania la frana di Sarno del ’98 o di Ischia dell’anno scorso, in Alto Adige il collasso della Marmolada del 3 luglio 2022… Oltre ai famosi nomi dello spettacolo e della cultura, partecipano compagnie amatoriali, scuole, parrocchie, gruppi di lettura, giovani e anziani in dialogo, comunità di non professionisti. «Il testo originale è stato asciugato dal regista Marco Martinelli, che ha tolto i miei riferimenti personali per renderlo plausibile in bocca ad altri attori e proporlo come base: i ruoli ora sono sei, tre cori, due narratori e il corifeo, ma ogni teatro fa a modo suo – ci spiega Paolini –. Se ciascuno raccontasse la storia del suo territorio avrebbe già un significato, ma farlo tutti in contemporanea diventa il segnale che il teatro si assume un potente ruolo di prevenzione civile». Perché, se nel momento dell’emergenza «serve la Protezione civile, servono i volontari che spalano il fango, finita l’emergenza la crisi resta», pronta a colpire di nuovo. Ogni volta pensiamo di aver appreso la lezione, poi la scordiamo fino ai prossimi morti, «allora il teatro accetta la sfida e si pone come il soggetto al quale guardare per mettere insieme le persone e imparare dagli errori. E il Vajont è una storia-maestra di errori fatali».

Longarone il giorno dopo la strage – Immagine tratta dal docufilm “Vajont ’63, il coraggio di sopravvivere” (Venicefilm)

Perfetta nella sua struttura, infatti, la diga era stata però ancorata su un’antica frana del monte Toc e i progettisti avevano calpestato sia la saggezza popolare (Toc in dialetto significa “Marcio”) sia gli avvertimenti della giornalista bellunese dell’Unità Tina Merlin (processata per «diffusione di notizie false, atte a turbare l’ordine pubblico»); poi, quando si resero conto dell’infernale meccanismo che avevano messo in moto, falsarono i dati e semplicemente “sperarono” che l’inevitabile non avvenisse. «Ma attenzione, i responsabili delle tragedie sono ormai noti, l’obiettivo di VajontS 23 va oltre, non vuole più puntare il dito contro i colpevoli ma mettere l’accento sugli errori, che si ripetono uguali».

Sarebbe comodo, insomma, «liberarci attraverso una sentenza che ha trovato un nome, un cognome e una faccia per i responsabili», affonda Paolini, «quando ancora cade un Ponte Morandi a Genova, capiamo che la sottovalutazione del rischio è diventata il normale paradigma di un certo tipo di gestione aziendale: come si fa ad accettare che il rischio fosse noto, eppure si sia deciso di confidare nella fortuna?». O dal Vajont impariamo subito ad agire in alleanza con la morfologia dei luoghi, oppure «sempre più spesso ci troveremo davanti a una serie di “no” isterici e di paure irrazionali da parte dei residenti», avverte l’artista: la soluzione non è di non fare più le opere, che sono necessarie, «ma di non costruirle sulla pelle degli abitanti. Il teatro civile corale chiede questo, confidenza e fiducia tra chi decide/progetta e chi in quei luoghi poi deve vivere».

(Mario Tozzi, geologo, parteciparà al Carcano – Teatro Carcano)

«Per chi fa divulgazione scientifica partecipare a VajontS 23 è un dovere civile – afferma il geologo Mario Tozzi, che sarà al Carcano di Milano insieme a Lella Costa –. Il Vajont dimostra la tracotanza dei sapiens, che pensavano di erigere l’ennesima Torre di Babele senza studiare il territorio, e il sito si è ribellato: le catastrofi naturali non esistono, esistono gli eventi naturali che diventano catastrofici per colpa nostra. Se escludiamo l’asteroide che colpisce la Terra, è sempre l’uomo che sfida la natura e perde. Il problema è il profitto, tutti parlano di ecologia ma poi quanti sono disposti veramente a rinunciare a un pezzetto di benessere in funzione della natura?».

Se si usassero cento camion al giorno, spiega, ci vorrebbero 700 anni per sgomberare i milioni di metri cubi di roccia tuttora ammassati nell’invaso al posto dell’acqua. «E i 260 metri di altezza della diga sono sempre lì, impudicamente intatti. Ogni volta che torno al Vajont mi impressiona vedere ancora sulla montagna quella cicatrice a forma di M da cui si staccò la frana». La M che i contadini trattavano da secoli con sacro rispetto, e che gli ingegneri della Sade venuti dalla città guardarono con sufficienza.

Per realizzare l’ambizioso progetto VajontS 23 si è costituita da mesi una “rete di scopo”, comitato promotore che, senza finanziamenti, attraverso il passaparola tra artisti ha coinvolto migliaia di persone (nel sito www.lafabbricadelmondo.org la mappa degli spettacoli del 9 ottobre). «In un’epoca in cui nel web uno conta uno, e ogni voce tende a creare il suo spazio competitivo per vedere chi ha più seguito, noi che riabilitiamo il coro siamo in controtendenza – sottolinea Paolini –. Trasformare il solista in una voce tra tante non è conformismo, ma recupero della coscienza collettiva». Così lo stesso Paolini nel VajontS 23 che andrà in scena allo Strehler di Milano sarà uno tra 200 attori. Tutti gli spettacoli si interromperanno simultaneamente alle 22.39, nel momento in cui la frana del Vajont iniziò a cadere. In ogni teatro si ascolteranno allora i rintocchi della campana di Longarone, quella che suona ogni anno solo il 9 di ottobre.

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