(Foto di Marco Caselli Nirmal)

Il 9 ottobre l’azione di teatro civile corale con seicento messe in scena in contemporanea. E alle 22.39, l’ora della frana, tutti gli spettacoli si fermeranno per un minuto di silenzio

Centotrentacinque sono i teatri coinvolti e vanno da Potenza a Singapore, da Napoli al Canada. Duemila gli artisti e le persone in campo, di cui 223 tra famiglie, gruppi di amici, 94 scuole, 50 gruppi di teatro amatoriale. Il 9 ottobre saranno i protagonisti della più grande azione di teatro civile corale mai organizzata in Italia con 600 messe in scena in contemporanea per ricordare, nel giorno in cui avvenne nel 1963, una delle più grandi catastrofi della nostra storia, una frana che cadde dal monte Toc nell’invaso della diga del Vajont, l’acqua tracimò e seppellì tre paesi tra cui Longarone e quasi duemila persone.


(Foto di Gianluca Moretto)

Il mega spettacolo diffuso si intitola VajontS 23, ed è un’ ulteriore impresa del teatro civile di Marco Paolini, l’attore che con la sua comunicativa diretta segnò già nel 1993 una pietra miliare nella narrazione pubblica con Il racconto del Vajont dove ricostruiva una a una le responsabilità politiche e economiche di quel disastro; quello spettacolo colpì e commosse l’Italia e nel 97 divenne perfino un cult televisivo trasmesso in diretta dai luoghi della tragedia.

Ora con VajontS 23 Paolini moltiplica le voci e i racconti, “perché il Vajont non è una catastrofe che riguarda solo una valle”, dice. Con una squadra di collaboratori tenaci, la Fabbrica del Mondo, Michela Signori, la collaborazione di Marco Martinelli, Michele dell’Utri, il Piccolo Teatro di Milano e tantissime istituzioni e Comuni, e un anno di lavoro, ha messo sù una immensa rete, “artisti, parrocchie, gruppi di lettura, insegnanti, comitati di quartiere, persino nella corsia di un reparto oncologico dove il 9 rifaranno pezzi del mio Racconto o quello che vorranno su temi come dissesto idrogeologico, acqua, clima”, spiega Paolini che quella sera sarà a Milano, al Piccolo Strehler con 200 cittadini tra cui il sindaco Giuseppe Sala, la scrittrice Benedetta Tobagi e venti artisti da Marta Cuscunà, Marco D’Agostin a Federica Fracassi, Lino Guanciale, Arianna Scommegna. In contemporanea, per esempio e tra gli altri, sempre a Milano, al Carcano Lella Costa introduce una lezione del geologo Mario Tozzi, al Verdi di Padova parlerà Telmo Pievani, allo Stabile di Torino Gabriele Vacis, che del primo Racconto del Vajont fu coautore, al Brancaccio di Roma ci saranno da Pietro Sermonti a Neri Marcorè, Luca Zingaretti, Valerio Aprea, Paolo Calabresi. “E alle 22.39, l’ora della frana, tutti gli spettacoli si fermeranno per un minuto di silenzio” anticipa Paolini, infaticabile, visto che il 16 rifarà Il racconto del Vajont integrale al Piccolo di Milano già esaurito, dove l’11 debutta con il nuovo lavoro teatrale prodotto dallo Stabile del Veneto, Boomers, un quasi-musical su cinquant’anni di storia italiana affiancato da Patrizia Laquidara e una band.

(Foto di Gianluca Moretto)

Paolini, la sfida più alta è proprio VajontS 23.
“Duemila voci che dalla tragedia di Longarone rifletteranno sulle sorti del pianeta, credo sia una cosa mai fatta. Lo facciamo col teatro perché lì si è meno soli, e se le tragedie, le paure le racconti tu, ti restano dentro. Peccato che non potremmo collegare in diretta tutte le messe in scena, ma non abbiamo avuto finanziamenti. Forse spaventa ancora alzare il velo sul Vajont che le Nazioni Unite mettono come quarto disastro più grave mai provocato dall’uomo”.
Cosa vuol dire alzare oggi quel velo?
“Trent’anni fa ciò che mi muoveva era il bisogno di dare un risarcimento all’oblio. Oggi Il racconto lo ascolta chi ha 20, 30 anni, e più che alle colpe dei monopoli elettrici o della Democrazia cristiana, pensa ai rischi connessi alla fragilità del territorio, alle nostre case. VajontS 23 raccoglie anche quell’ansia da futuro dei giovani che non si cura con gli psicofarmaci, ma col cambiamento dei comportamenti, è un dirci ‘muoviamoci’, tutti assieme”.
Giovani e vecchi, padri e figli, è anche il tema del suo nuovo lavoro, di Boomers. Perchè le sta così a cuore?
“Sono partito da quella che i sociologi chiamano rottura del codice tra le generazioni. Noi boomers, sessanta-settantenni, siamo i Flinstone, delle nostre esperienze i nuovi nati poco ne sanno, il Vietnam, Sessantotto… Boomers fa i conti con i frammenti di memorie condivise nell’arco di cinquant’anni d’Italia ma affrontate in modo un po’ particolare”.

(Foto di Gianluca Moretto)

Cioè?
“Siamo in un bar, il bar di Jole che sta sotto un cavalcavia autostradale, metafora del progresso che corre veloce sopra le nostre teste. In scena ho un figlio che per una start up fa giochi per anziani e me ne fa provare uno, Boomers dove il mio Jurassic Park di ricordi entra come in un tritacarne, ed tutto è più violento”.
Un apologo amaro?
“No, è un gioco, con una drammaturgia di musiche e canzoni, e entra senza cinismo nel tema della trasmissione dell’esperienza, di chi tramanda qualcosa a qualcuno che la raccoglie. Ma come pretenderlo se abbiamo rinunciato a tirar su i figli e l’abbiamo lasciato fare alla televisione, a internet e quando non funziona diamo colpa alla scuola? Ovvio che il codice tra generazioni è rotto, e cambiare il senso comune non è facile. Ma Greta e gli altri ci stanno mandando un segnale forte, e davanti alla crisi climatica, alla redistribuzione della ricchezza, noi boomers non possiamo restare lì, attaccati al nostro mondo”.

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