Un giovane Marco Paolini nel 1997 davanti alla diga del Vajont, dove mise in scena il suo spettacolo. Foto Marco Caselli
Il 9 ottobre 1963, quasi 2000 persone morirono a Longarone e dintorni, travolte da 25 milioni di metri cubi di acqua, alzati da una frana caduta sul lago artificiale della diga, rimasta intatta. Un “disastro della sottovalutazione del rischio”, ricorda l’attore, che trent’anni dopo ripropone il suo racconto della vicenda, coinvolgendo tutta l’Italia in 700 messe in scena di “VajontS 23”. Un’ azione di “prevenzione civile” spiega, davanti ai rischi della crisi climatica, denunciati anche dal Papa
Sessanta anni fa, il 9 ottobre 1963, alle ore 22.39, 270 milioni di metri cubi di rocce, vegetazione, pascoli, si staccano dal monte Toc e franano nel bacino del lago artificiale della diga del Vajont, in provincia di Belluno, alta 250 metri. Si solleva un’onda di 50 milioni di metri cubi, che investe prima i paesi di Erto e Casso, e poi dimezzata dall’impatto con la montagna, salta la diga, che rimane intatta, e corre ad 80 chilometri l’ora nella gola che porta a Longarone. In sei minuti vengono spazzati via dalla furia di vento, acqua e fango Longarone, Vajont, Castellavazzo e poi Pirago, Rivalta, Villanova e Faé, causando 1917 vittime, molte delle quali non sono mai state ritrovate. E’ la seconda più grande frana caduta nel pianeta, dopo quella nel versante indiano del Pamir, ma non è caduta, è stata provocata dal riempimento dell’invaso artificiale, che ha minato la stabilità della montagna. E che pure aveva dato molti segnali, tutti ignorati, fin dalla prima frana, il 4 novembre 1960, e poi con ripetute scosse di terremoto.
Nel 1997, più di 3 milioni guardano in Tv Il racconto del Vajont
Davanti a quella diga, capolavoro dell’ingegneria italiana, 26 anni fa, il 9 ottobre 1997, l’attore e regista Marco Paolini, bellunese che oggi vive a Treviso, allora 41enne, mette in scena “Il racconto del Vajont”, scritto con Gabriele Vacis, con mille spettatori sul posto e 3 milioni e mezzo incollati alla tv per una diretta di più di tre ore su Raidue. Un evento che fa la storia della Tv e del teatro e chiude la rappresentazione di quell’ “orazione civile” iniziata nel 1993, prima nelle case di amici e poi nelle piazze e nei teatri di tutta Italia.
Marco Paolini oggi, mentre presenta “VajontS 23” ad un gruppo di giovani
Una voce sola allora, un coro di duemila voci oggi
Oggi, quella voce sola che parlava di responsabilità umane, accertate anche dai magistrati, e non di “natura maligna”, diventa un enorme coro di più di duemila voci, in quasi 700 messe in scena, in tutta Italia e in contemporanea, la sera del 9 ottobre. Coinvolti in “VajontS 23”, “azione corale di teatro civile” su un canovaccio scritto da Paolini e Marco Martinelli, oltre 135 teatri, a partire dal Piccolo di Milano dove l’attore sarà affiancato da 20 colleghi e 200 cittadini con il sindaco Sala, ma anche gruppi di amici, parrocchie, cento scuole, compagnie di teatro amatoriale e perfino la corsia di un reparto oncologico. Il racconto del Vajont è stato “asciugato ad un ora e 40 – ci spiega Marco Paolini – spostando l’accento dalla colpa all’errore, perché della prima si occupano i tribunali, mentre è dagli errori che dobbiamo imparare”.
Nessuno è al riparo dalle conseguenze della crisi climatica
E nelle diverse rappresentazioni, alla tragedia del 1963 si aggiungeranno quelle locali, dall’alluvione di maggio in Romagna alla frana di Sarno, in Campania, nel 1998, ma anche la “frana delle istituzioni” che a Palermo ha lasciato soli, fino alla morte, Falcone e Borsellino. Questa rete di messe in scena è un’idea dell’attore per Fabbrica del Mondo, realizzata da Jolefilm con la collaborazione di Fondazione Vajont. “Trent’anni fa c’era ribellione e voglia di raccontare l’ingiustizia – ricorda Paolini – e grande rabbia per l’oblio. Ma oggi sappiamo molto di più, giustizia è stata fatta e la memoria è stata ricostruita”. Allora con “VajontS 23” “vogliamo stimolare a ragionare, con un’azione di ‘prevenzione civile’ sulle situazioni di fragilità dell’Italia. La sua fragilità idrogeologica e le nuove situazioni di siccità a cui la crisi climatica ci espongono, richiedono anche al teatro, all’arte in generale, di occupare un ruolo civile di colla sociale tra i cittadini”. Perché se trent’anni fa, ascoltando il racconto di Paolini “tutti pensavano ai poveri montanari, oggi pensano a sé stessi, sentono paura per la loro condizione, intuiscono la fragilità del mondo in cui vivono. Oggi non esiste città che sia al riparo dagli effetti degli eventi estremi metereologici”.
Longarone dopo la tragica ondata caduta dal lago artificiale del Vajont, il 9 ottobre 1963. Foto archivio “L’amico del popolo” di Belluno
Marco Paolini e la Laudato sì: un testo politico e poetico
Sembra di riascoltare molti degli allarmi e delle proposte di Papa Francesco, prima nell’enciclica Laudato sì e ora anche nell’ultima esortazione apostolica Laudate Deum, e Marco Paolini conferma che l’Enciclica papale del 2015 è da allora “nella mia biblioteca scientifica” e che, da laico, la legge “come un testo politico ma anche poetico”. Ma la Laudato sì va messa in pratica gridando insieme che “non fare non è la soluzione e che bisogna agire in maniera più radicale”. Di seguito, l’intervista integrale alla vigilia dell’anniversario del Vajont.
Sessant’anni dopo, anche per chi poco lo conosce, cosa è stato il Vajont? Una catastrofe della sottovalutazione umana, un disastro industriale, un crimine voluto, o cosa ancora?
Non è un crimine voluto, ma è un disastro, una tragedia industriale, perché c’è una sottovalutazione del rischio sistematica, ma soprattutto non tutti gli attori di quella storia svolgono il loro ruolo. Il controllato dovrebbe essere una società privata (la veneziana Sade, Società Adriatica di Elettricità, n.d.r), che poi viene nazionalizzata e diventa Enel, e il controllore dovrebbe essere lo Stato. I tecnici dovrebbero essere i geologi e non soltanto gli ingegneri. Ma le autorità del territorio, come il presidente della Provincia di Belluno, che si chiamava Da Borso, già molto prima del disastro segnalavano stranezze. Preoccupato dalle notizie sul Vajont, Da Borso andò al Ministero dei Lavori Pubblici a Roma, senza ottenere niente, e attaccato nel suo consiglio provinciale, sbottò dicendo: “Ma la Sade è uno Stato nello Stato”. Questo non, come le parole che noi usammo poi, dopo la strage di Piazza Fontana, per indicare la strategia della tensione, ma 10 anni prima. Dieci anni prima, un gentiluomo del partito di maggioranza, la Democrazia Cristiana, indica l’impossibilità di comprendere e controllare l’operato di una grande società industriale privata. Dunque anche lì c’era un vulnus dello Stato.
Don Pietro Bez, nuovo parroco di Longarone arrivato 5 giorni dopo la tragedia, davanti alla macerie del paese distrutto
Il Vajont è la somma di tutta una serie di cose, ma le colpe di quella storia sono accertate nei tribunali. Se le sentenze sono state troppo miti, se hanno coinvolto solamente la parte tecnica, ormai tutto questo è storia, giurisprudenza. Il teatro non si fa oggi per raccontare e puntare il dito soltanto verso i responsabili, perché in qualche maniera il torto è elaborato, l’Italia sa che il Vajont è un disastro industriale. Ma la storia del Vajont contiene degli errori e credo che oggi il mettere l’accento sugli errori e sul non vedere quello che hai davanti, sul non comprendere la natura del rischio, tutto questo vale ancora. La storia del ponte Morandi insegna, ma non soltanto quella. La crisi ambientale ci pone davanti a molti rischi di questo tipo.
L’ultimo, e forse il più tragico errore, è stato quello di non avvisare la gente di andare via da Longarone il pomeriggio del 9 ottobre…
Sì, ma non lo diciamo con un tono leggero. Fare uno sfollamento avrebbe significato creare un allarme e ammettere che c’era un pericolo, che fino al giorno prima era stato negato. Dunque io non credo che tutto questo derivi dal fatto di voler uccidere. Non c’è un intento criminale, ma la sottovalutazione è: “Abbiamo tutto sotto controllo”. Non era così.
Da quell’errore e da quel disastro provocato quale lezione abbiamo appreso in questi anni, se davvero l’abbiamo fatta nostra, grazie soprattutto alle inchieste giornalistiche di Tina Merlin, quelle giudiziarie e quindi le sentenze, ma anche la sua orazione civile?
Ma no, la mia orazione civile è servita a riscaldare la minestra, a rimettere questa storia nel cuore delle persone. Il teatro serve a questo, ma è la testa che dovrebbe apprendere la lezione del Vajont. Purtroppo la lezione del Vajont non è ben elaborata, perché la prima reazione umana, istintiva, è stata quella di bloccare la costruzione di dighe nel nostro Paese. La reputazione delle dighe, e di chi le costruiva, è crollata. Noi costruivamo delle ottime dighe, e quella del Vajont è sicuramente una grande diga dell’ingegner Semenza, tant’è che ha resistito a un colpo come quello che la frana le ha dato. Gli errori sono nel rapporto tra ciò che costruiamo e il territorio che lo ospita. Quindi in quel caso la sottovalutazione del rischio geologico. Ma, quasi in maniera superstiziosa, il responsabile è la diga. E dunque basta dighe in Italia. Al di là del fatto che le dighe hanno un alto impatto ambientale, e che bisogna sempre fare tutte le valutazioni di merito su opere come quelle, oggi ci troviamo a gestire una crisi idrica, nella quale avremo bisogno di nuovi serbatoi. E di nuovo viene utilizzato il ricordo del Vajont per esorcizzare la costruzione di un serbatoio artificiale nel proprio territorio.
Marco Paolini davanti alla lavagna con tutti i numeri del disastro del Vajont, durante le prove di “VajontS 23”. Foto di Gianluca Moretto
Questa non è la lezione del Vajont, questa è superstizione. Bisogna separare il diavolo dalla crusca, e cercare di elaborare un pensiero che non sia mortificante nei confronti degli ingegneri, ma che coinvolga i cittadini. Che chiedono di essere messi a parte delle scelte e dei rischi delle scelte, di condividere sostanzialmente i progetti. Questo lo fanno tradizionalmente alcuni Paesi, come la Svizzera, che quando intraprende un’azione come la perforazione di un traforo, già molto tempo prima apre un dialogo con la popolazione del territorio. Da noi abbiamo la Val di Susa e lo Stato che prima decide di fare un’opera e poi eventualmente valuta anche le compensazioni per le popolazioni. Questo principio è sbagliato, va capovolto. Le popolazioni devono partecipare alle decisioni dall’inizio. E se prevale l’egoismo è perché tutto sommato abbiamo lasciato raffreddare i legami sociali. Non abbiamo possibilità di condividere le scelte di fondo. Su questo dobbiamo di nuovo riscaldare non la minestra stavolta, ma i cuori, oltre che le teste.
Con lo spettacolo “VajontS23” quindi, lei vuole far capire anche che se ignoriamo di nuovo il rischio, anche di fronte ai segnali inequivocabili della natura, rischiamo questa volta molto di più?
Questo in qualche maniera lo sappiamo già. Davanti alla crisi ambientale non fare non è la soluzione. E’ la soluzione che mette a posto nei confronti delle prossime elezioni, perché non si prendono decisioni impopolari. Davanti alla crisi ambientale, fare un lifting, quello che viene chiamato “greenwashing”, serve ad acquistare indulgenze in paradiso, se ancora esistono. Bisogna agire in maniera più radicale: ce lo dicono gli scienziati, ce lo chiedono le nuove generazioni. Ci chiedono di fare qualcosa che costa molto, perché se non lo facciamo il prezzo sarà infinitamente più alto. Incominciare tutto questo vuol dire mettere di nuovo in movimento non soltanto il cervello, ma anche il cuore, perché senza la voglia, nessuno si alza dalla sedia dove sta comodo. Se noi potessimo essere lasciati tranquilli delegando la responsabilità, tendenzialmente lo faremmo, brontolando ma lo faremmo. In momenti come questi, il teatro serve non a dire cosa bisogna fare, ma a ridare alle persone quell’energia, quella voglia di alzarsi in piedi e di provare a chiedere, interrogare prima di tutto se stessi, poi anche gli altri, in maniera non petulante ma costruttiva. Un esercizio di democrazia.
Ancora Marco Paolini durante le prove del nuovo spettacolo collettivo “VajontS 23”
Lei l’ha vista questa voglia, questa passione, negli occhi dei giovani, e di tutte le persone che hanno ascoltato le sue prove di “VajontS23”?
Chiunque può vedere questa voglia delle facce dei giovani, il problema non sono loro. Loro sono più che disposti a cominciare un percorso nuovo. Loro chiedono questo, perché hanno già una preoccupazione, quella che noi chiamiamo “ansia da futuro”. Ma non è una patologia da curare con qualche tranquillante. L’ansia del futuro deriva dal notare un’inerzia delle generazioni precedenti. Allora, trent’anni fa, quando raccontavo quella storia, tutti pensavano ai poveri montanari. Oggi pensano a se stessi, sentono paura per la loro condizione, intuiscono la fragilità del mondo in cui vivono. Allora, nel 1963, una valle di montagna era un luogo circoscritto, nel quale stava accadendo qualcosa che riguardava quella valle. Oggi non esiste città che sia al riparo da quelli che possono essere gli effetti degli eventi estremi metereologici. Non esiste parte del nostro territorio che sia al riparo dalla siccità, dunque non si può chiamarsi fuori. Questa è una percezione che hanno tutte le persone che ascoltano questa storia, che sembra una tragedia antica, perché contiene tutti i segni di quel che sta intorno e che non vengono percepiti. E poi l’epilogo, quello che succederà alla fine, è già noto, già dall’inizio. Ma il modo in cui le cose si svolgono è meno noto, o anche se è stato ascoltato, riascoltarlo muove di nuovo dei pensieri e dei sentimenti. Abbiamo bisogno di quei pensieri e di quei sentimenti, perché i sentimenti sono antichi algoritmi che la specie umana ha elaborato per prendere delle decisioni. Servono perché senza una molla le decisioni si rimandano all’infinito. E non è questo il tempo. Allora io vedo che le persone sono diverse, alla fine del racconto. Non importa quanti anni hanno. Ho rifatto i test perché avevo dei dubbi anch’io. Ho ripetuto il racconto del Vajont qualche decina di volte “clandestinamente”, questo inverno, nel senso che funzionava con un passaparola, non era annunciato nei cartelloni, ma serviva per vedere se la storia aveva ancora presa. Ce l’ha. E questo lo pensano centinaia di artisti e di organizzatori teatrali che hanno deciso di fare tutti insieme qualcosa il prossimo 9 ottobre.
Sentendola parlare, si trovano molti concetti della Laudato sì di Papa Francesco, come l’ecologia integrale che coinvolge il rispetto per l’ambiente naturale ma anche per quello umano…
Sì, sono otto anni che la Laudato sì è dentro la mia biblioteca scientifica, insieme ai testi dei moniti degli scienziati sul cambiamento climatico, sulla spiegazione degli effetti della complessità. Ovviamente da laico lo leggo come un testo politico, ma anche come un dialogo necessario, perché nella Laudato sì ci sono delle parole che toccano. E dunque per me che faccio questo mestiere, quel testo è anche un testo poetico. Tutto questo non può essere risolto citando la Laudato sì, bisogna metterla in pratica. Dal mio punto di vista, il mestiere che faccio un mestiere privilegiato. Sono anche uno che è conosciuto come uno che va sul palco da solo, perché faccia di quelli che la gente chiama ancora “monologhi”. Io li chiamo racconti, ma comunque… Però adesso faremo un coro, e su questa storia prenderemo parola in tanti. Sarà un lavoro di teatro civile, perché quello che ci chiede questo tempo, quello che ci chiede la Laudato sì, è di non essere soli, di non coltivare pensieri, per quanto profondi, in solitudine. Ma questo significa cambiare il nostro atteggiamento: investire nella fatica di costruire reti di scopo, reti fisiche che avvicinino le persone. Non dobbiamo rassegnarci alla dittatura della convenienza che ci fa comprare, stando fermi, le merci di tutto il mondo e alla dittatura dei social che illudono di avere un infinito sistema di relazioni con l’universo. Ma queste sono tutte relazioni che passano dal cervello, perché gli altri sensi, il tatto, la vista, il gusto, sono fuori dalla rete. Anzi la vista c’è, ma non c’è la prossemica, non c’è la vicinanza. Il teatro invece offre tutte queste cose. E le storie raccontate a voce alta fanno viaggiare un’emozione più velocemente dei byte della rete.
Ci dica qualcosa di più sulla serata del 9 ottobre…
Sa quanti siamo a Milano? 200 persone, a Ravenna 150, mi pare. Ci sono sindaci, cittadini, protezione civile, artisti, maestranze dei teatri. Ogni teatro ha deciso di gestire la cosa a modo suo. Sono tantissimi i gruppi per ragazzi. Io sono stato alle prove, emozionanti, di un liceo che sta lavorando da mesi su questa cosa, perché loro lo diranno a memoria, non lo leggeranno. È un lavoro toccante e credo che questo sia il senso, un passaggio di testimone. In questo momento non serve avere un simbolo, un testimonial da spot, bisogna che siano dei cori a far viaggiare i messaggi. Il testo di Vajont si è asciugato drasticamente da 3 ore a 1 ora e 40, perché se no non si poteva fare in coro. Ho spostato l’accento dalla colpa all’errore, perché della colpa si occupano i tribunali, noi non puntiamo il dito, mentre gli errori sono importanti, perché sono la lezione che dobbiamo imparare. Ma oltre a questo è evidente che il resto ce lo mettono le persone che ascoltano la storia. Io non ho bisogno di attualizzare oltre, però ci saranno degli artisti e dei teatri che metteranno insieme la storia del Vajont con qualcosa che tocca il loro territorio. Lo faranno in Emilia-Romagna, lo faranno nella zona di Napoli, a Casamicciola, lo faranno in Sardegna parlando del fuoco, oltre che dell’acqua. Lo faranno in maniera audace in Sicilia perché Davide Enia ha raccolto la sfida per parlare di una specie di frana delle istituzioni, la solitudine di Falcone e Borsellino. E’ un passaggio audace, ma la “esse” alla fine di Vajont non significa che facciamo di un’erba un fascio. Piuttosto, che facciamo uno sforzo per far sentire che teatro civile vuol dire sì, da una parte, memoria, dall’altra vuol dire, rivolto alle nuove generazioni: “Ok, apriamo una porta di dialogo con voi per quanto riguarda il futuro, non per consegnarvi la memoria.
E anche dare una sveglia…
Questo è molto più difficile: la classe politica secondo me, in generale, non so se capirà questa cosa. Potrebbe sembrare un evento nel calendario, un esercizio di stile. Ma i destinatari veri la sentiranno.
Preghiera al Cimitero monumentale delle vittime del Vajont a Fortogna di Longarone, nel 1996
Alle celebrazioni Mattarella e il patriarca di Venezia
Il programma della giornata del 60. mo anniversario del Vajont, lunedì 9 ottobre, prevede alle 9 messe in suffragio nelle chiese parrocchiali di Erto e Casso, alle 9.30 la deposizione di una corona in memoria delle vittime sul sagrato della chiesa di Pirago. Alle 11, nel Cimitero delle vittime del Vajont, a Fortogna di Longarone, una cerimonia commemorativa, con omaggio alle vittime, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Poi il capo di Stato, attorno alle 12, si sposterà nello spiazzo della diga del Vajont per gli interventi istituzionali della commemorazione civile, presente anche il presidente della Regione Veneto Luca Zaia. Alle 14.30, nel Centro culturale di Longarone, si tiene il convegno di apertura della Settimana nazionale della Protezione Civile, sul tema “Linguaggi e saperi a confronto sessant’anni dopo la catastrofe”. Nel pomeriggio, alle 16, la Santa Messa nel Cimitero monumentale di Fortogna, in suffragio delle vittime del 9 ottobre 1963, celebrata dal patriarca di Venezia Francesco Moraglia e dal vescovo di Belluno-Feltre Renato Marangoni. Infine la sera, dalle 21, una veglia di preghiera nella chiesa di Pirago, e alle 22.39, quando la frana si è staccata dal monte Toc, in quella di Longarone, il rintocco della campana.