Al Centro Candiani di Mestre, è stato presentato il volume di Marco Paolini e Francesco Niccolini dedicato ai giovani sulla tragedia della diga che nel 1963 causò oltre duemila morti. “È diventato un romanzo corale”

 

IL LIBRO
Passa il tempo e Marco Paolini cambia, come il mondo. Il suo sguardo di oggi regala una lettura della tragedia del Vajont, in cui la sua generazione è nella condizione del genitore, non più di chi scopre la storia. “Mi sono chiesto se era giusto che i ragazzi ereditassero un documento freddo. Il teatro è contemporaneo e non è scritto per i posteri. Quando lo fai, è solo in quel momento”.
Così l’attore, regista e scrittore ha parlato del romanzo “La storia del Vajont”, un libro pensato principalmente per i ragazzi, scritto insieme a Francesco Niccolini, che rilegge la tragedia con gli occhi del presente. Ieri sera la sala del Centro Candiani era affollata per la presentazione curata da Fondazione Rinascita 2007, Iveser Venezia e l’associazione “Compagno è il mondo” presieduta da Michele Mognato, in dialogo con l’autore insieme al sociologo Gianfranco Bettin. L’associazione già nelle scorse settimane, in analoghi incontri pubblici, aveva affrontato la tragedia del Vajont. L’incontro di ieri sera a Mestre ha concluso una riflessione a tappe su quell’episodio. In passato si era parlato delle carte processuali del dibattimento penale e anche sulla memoria delle popolazioni di Longarone, Erto e Casso e paesi limitrofi colpiti dalla grande massa d’acqua staccatasi dal monte Toc.

IL CASO
Il 9 ottobre del 1963, 260 milioni di metri cubi di roccia franano dal monte e piombano nel lago artificiale della diga del Vajont, al confine tra Veneto e Friuli. Si scatena un’onda di 50 milioni di metri cubi d’acqua che si abbatte sulla cittadina di Longarone, provocando la morte di 2000 persone. Un disastro ancora vivo, sulla cui atualità Marco Paolini non ha mai smesso di interrogarsi. Trent’anni fa “Il racconto del Vajont” era la sua voce e il corpo, un monologo che ha portato in giro per l’Italia e in tv. E con la stessa passione civile, la sera di lunedì 9 ottobre 2023, nel 60esimo anniversario è diventato un racconto corale che ha coinvolto 265 teatri in Italia nella realizzazione di un proprio allestimento di “VajontS per una Orazione Civile Corale”.

IL RACCONTO
Alla diga del Vajont arrivano una mattina di primavera un padre e un figlio, ripercorrendo le tracce del nonno Luzio che aveva lavorato al cantiere. ” Se la potenza dello spettacolo è stata restituire l’attualità e l’intensità di un dramma – ha detto Bettin – , nel libro si entra nel racconto mite di un padre a un figlio, che diventa strumento di conoscenza della storia, utile a leggere il presente con la consapevolezza di chi ha visto un dramma ambientale”. Paolini ha spiegato di avere scritto il racconto pensandolo per i ragazzi, perché continua a incontrare giovani che a 11 anni dicono di aver visto lo spettacolo grazie agli insegnanti oppure su YouTube.

LA MISSIONE
“Nell’evento televisivo ci sono tanti riferimenti che le persone coglievano allora – ha spiegato Paolini -. Oggi quella traccia parla solo ai genitori, che pretendono i ragazzi si sintonizzino. Da qui è nato l’impulso di rifare Vajonts e l’idea del libro è una storia che si racconta in modo diverso”. Una storia fatta di montagne, di uomini e numeri, colpe e responsabilità. È la vicenda della costruzione della diga del Vajont, della sua parte visibile e di quella invisibile, di tutte le sue cose taciute, dei segnali e dei rischi mal calcolati e ignorati. E la vera protagonista è l’acqua, ciò che ne abbiamo fatto negli anni e ne stiamo facendo tutt’ora. “Quando la frana cadde – ricordato Paolini -, la montagna valeva come una vasca da bagno rispetto a chi difendeva il territorio, senza avere la solidarietà della nazione”. Per Bettin quella diga è “un crimine all’interno di un percorso di di progresso di un Paese”, e se mentre all’epoca dello spettacolo il rischio era la “banalizzazione di un ricordo, se non l’oblio”, oggi è la sua “monumentalizzazione e istituzionalizzazione”. Paolini ha racconato che nel 1957 il servizio geologico italiano aveva solo sei geologi. “Dimostra che nel caso del Vajont è stato paradossale che il ruolo del controllore sul controllato non fosse efficace – conclude -, ma un sintomo di sfiducia, corruzione e malaffare, che implica noncuranza e superficialità in molti altri ambiti”.

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