Ne sanno quasi nulla, le nuove generazioni, del disastro del Vajont; è un “sentito dire” come forse lo è stato per chi, all’epoca dei fatti, aveva la stessa età. Allora, però – parliamo del 1963 – l’informazione non era certo immediata e massiccia come oggi e i suoi limiti fungevano perciò da attenuante anche alla scarsa attenzione sul caso.
Eppure, col tempo, attorno a quella tragedia anche noi nati qualche anno dopo abbiamo avvertito la necessità di apprendere di più, mossi, nei confronti di chi il dramma davvero l’ha vissuto, da un’empatia che invece oggi, col mutare dei tempi e del “sentimento sociale”, sta diventando una capacità sempre meno diffusa.
Ecco, allora, che iniziative lodevoli come quella programmata in occasione del sessantesimo anniversario del disastro assumono una valenza educativa prima ancora che commemorativa, proponendosi come una formula nutritiva atta a riattivare il metabolismo sclerotico della memoria, della solidarietà e della consapevolezza.
“VajontS 23” muove infatti da questo intento, definendosi come “azione corale di teatro civile” volta, in primis, a rievocare, ma, ancor più, a riflettere su connessioni, implicazioni, domande e risposte che inevitabilmente ogni tragedia porta con sé.
Si tratta di una delicata e sapiente messa in scena che coinvolgerà in contemporanea oltre 130 teatri sparsi su tutto il territorio italiano (e qualcuno anche all’estero) lunedì 9 ottobre. Come un coro unico, all’unisono, partendo da uno stesso canovaccio – che è il racconto che Marco Paolini fece nel 1997, trent’anni dopo la tragedia – centinaia di interpreti, attori e non, racconteranno e rielaboreranno la vicenda, la cui cronaca è ormai storia.
Alle 22.39 del 9 ottobre 1963, dal Monte Toc, che sovrasta la diga (che tuttora è lì) costruita sul torrente Vajont (nell’omonima valle al confine fra Veneto e Friuli Venezia Giulia) si staccò un frana di 260 milioni di metri cubi di roccia che precipitò nel bacino idroelettrico da essa formato, sollevando un’onda immensa che tracimò e, insieme al fango trascinato dalle sponde del bacino, precipitò, investendo decine di paesi e borghi del fondovalle sottostante.
“Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi.”
Così scrisse Dino Buzzati sul Corriere della Sera dell’11 ottobre 1963, raccontando l’incubo di quella sera, in cui morirono quasi duemila persone di cui 487 di età inferiore a quindici anni. Non tutti i corpi vennero mai recuperati.
Che si sia trattato di un disastro evitabile, non naturale, ma provocato dall’uomo, è ormai accertato: dopo la costruzione della diga emersero le inadeguatezze morfologiche dei versanti del monte su cui era stata eretta, i segnali ignorati, soprattutto la cupidigia e la prosopopea umana che troppo spesso sono responsabili di catastrofi, come è del resto sempre più evidente in quest’epoca di grandi sconvolgimenti climatici.
Ecco perché Marco Paolini, ideatore – insieme a Marco Martinelli – di “VajontS 23” ha voluto quella S del plurale finale, per riflettere sugli errori più che sulle colpe e per ragionare sulla complessità delle storie di tutto il nostro Paese, “perché le situazioni di fragilità dell’Italia, fragilità idrogeologica e le nuove situazioni di siccità a cui la crisi climatica ci espongono, richiedono anche al teatro, all’arte in generale, di occupare un ruolo civile di colla sociale tra i cittadini.”
La sua prima narrazione del Vajont, fatta nel 1997, era nata – come egli stesso ha dichiarato – da una grande rabbia per l’oblìo: “ce l’avevo prima di tutto con me stesso: come avevo potuto crescere ignorando quella storia, archiviando il disastro come opera della Natura?”. Ora, a distanza di altri 25 anni, Paolini si è chiesto: “Cos’è cambiato? Noi non siamo gli stessi. È passata una generazione, ma non è solo questione anagrafica. Da alcuni anni ho cominciato a studiare i report sul clima, a leggere i libri di chi prova a narrare ciò che stiamo vivendo, a misurare le strategie del negazionismo prima e del populismo poi nel cavalcare i luoghi comuni che contrastano il quadro scientifico, giustificando un’inerzia diffusa alla transizione ecologica. La storia del Vajont racconta non solo ciò che è accaduto sessant’anni fa, ma quello che potrebbe accadere a noi su scala diversa, in un tempo assai più breve. Come le tragedie classiche, racconta di come i segnali, che c’erano, furono ignorati o sottovalutati”.
Lunedì, alle 22.39 di sera, l’ora in cui la montagna franò nella diga, tutte le performance in atto in quei 130 e più teatri si fermeranno. Sarà una muta orazione e, insieme, il momento apicale di una necessaria riflessione sui pericoli, non più trascurabili, che l’azione umana provoca quando sfida la natura.
Un monito d’un passato ignorato ad un presente ignorante.
Lo stesso che già Buzzati, in quell’articolo dell’11 ottobre di sessant’anni fa aveva intuito: “La fantasia della natura è stata più grande ed asciutta che la fantasia della scienza. Sconfitta in aperta battaglia, la natura si è vendicata attaccando il vincitore alle spalle. Si direbbe quasi che in tutte le grandi conquiste tecniche, stia nascosta una lama segreta e invisibile che a un momento dato scatterà”.