Azione corale di teatro civile
curata da Marco Paolini con la collaborazione di Marco Martinelli
un progetto di Marco Paolini per La Fabbrica del Mondo
realizzato da Jolefilm in collaborazione con Fondazione Vajont
La storia del Vajont ci serve perché insegna cos’è la sottovalutazione di un rischio affrontato confidando sul calcolo dell’ipotesi meno pericolosa tra tante. Tra tante scartate perché inconcepibili, non perché impossibili. Non essere capaci di concepire nasce dal non saper vedere un disegno, dal non riuscire a immaginare.
Noi, raccontando con il Teatro, costruiamo il disegno, l’immaginario e il sentimento che deve essere comune, deve diventare il senso comune, la base della vita sociale di un paese fragile e prezioso come il nostro.
Un breve inciso personale: quando 30 anni fa cominciai a raccontare quella storia avevo dentro una grande rabbia per l’oblìo. Ce l’avevo prima di tutto con me stesso: come avevo potuto crescere ignorando quella storia, archiviando il disastro come opera della Natura? C’era ribellione alla base del gesto di narrare il Vajont, e voglia di risarcimento e giustizia. Durante la performance era difficile tenere a bada l’emozione con il mestiere. Qualcosa di tutto questo è arrivato anche attraverso la televisione con la diretta del 9 ottobre 1997. Erano passati trentaquattro anni dal disastro. Adesso, sono sessanta.
Cos’è cambiato? Noi non siamo gli stessi. È passata una generazione, ma non è solo questione anagrafica. Da alcuni anni ho cominciato a studiare i report sul clima, a leggere i libri di chi prova a narrare ciò che stiamo vivendo, a misurare le strategie del negazionismo prima e del populismo poi nel cavalcare i luoghi comuni che contrastano il quadro scientifico, giustificando un’inerzia diffusa alla transizione ecologica. Provo io stesso fastidio a utilizzare parole come queste perché sono senza cuore, senza sentimento.
Cercando parole migliori per parlare di crisi idrica, di obbiettivi dell’agenda 30 delle Nazioni Unite, mi sono ritrovato davanti a quella storia: la storia del Vajont.
Nel mese di gennaio l’ho ristudiata e da febbraio in poi ho cominciato a raccontarla clandestinamente, su appuntamento. L’ho testata, insomma, su centinaia di spettatori di età diverse, di città diverse, da Palermo a Verona, da Milano a Napoli. Raccontando ho capito che la stessa storia, oggi, parla di noi e non di loro. Che nostra è la paura, la ribellione.
Non si racconta ciò che è accaduto sessant’anni fa, ma quello che potrebbe accadere a noi su scala diversa, in un tempo assai più breve. Racconta di come i segnali furono ignorati o sottovalutati, come nelle tragedie più classiche.
Marco Paolini
Era il 1940 e la SADE, Società Adriatica di Elettricità, con sede a Venezia, chiede al Ministero dei Lavori Pubblici il permesso di costruire, al confine tra Veneto e Friuli-Venezia Giulia, una diga alta 200 metri sul torrente Vajont, nel comune di Erto Casso, e realizzare un serbatoio di 58 milioni di metri cubi di acqua collegato con una centrale di produzione elettrica. Il bacino del Vajont sarà la banca dell’acqua di un sistema di sette dighe, denominato “il grande Vajont”: un ambizioso progetto curato dall’ingegnere Carlo Semenza (responsabile di tutte le dighe della SADE) con la consulenza del geologo Giorgio Dal Piaz, autentico luminare in materia.
Serviranno diciassette anni perché la SADE inizi i lavori. Contemporaneamente la società veneziana fa domanda per portare l’altezza della diga a 266 metri (quota 725 metri sul livello del mare): l’invaso passa da 58 a 150 milioni di metri cubi.
Dubbioso e preoccupato dell’enorme aumento di volume del bacino, Dal Piaz non riesce a scrivere una relazione aggiornata per il ministero: gliela scrive Semenza, e Dal Piaz la firma. Carlo Semenza è un ingegnere che in questi anni ha costruito le più grandi dighe in tutto il mondo e quella del Vajont sarà l’ultima prima di andare in pensione, il suo gioiello più ardito.
Il ministero approva il nuovo progetto ma chiede degli approfondimenti geologici sulle due montagne che sosterranno il peso dell’acqua, il monte Salta e il monte Toc. Dei nuovi studi vengono incaricati due geologi, tra questi Leopold Müller, geotecnico di fama internazionale che rapidamente esprime dei dubbi per un forte pericolo di frana sulla sponda del monte Toc. Ma Semenza va avanti, la SADE con lui.
La diga cresce con incredibile velocità, grazie a operai specializzati e minatori acrobati che in meno di tre anni terminano la costruzione: nel 1960 inizia la lunga procedura collaudo (serve il progressivo riempimento della diga con una serie di controlli, svasi e nuovi riempimenti), ma poco dopo che è cominciato il pompaggio dell’acqua, una piccola frana si stacca dal monte Toc. Una seconda frana, ben più preoccupante, si stacca dal Toc il 4 novembre: sulla montagna si apre una fessura nella roccia per una lunghezza di due chilometri e mezzo a forma di M.
Il geologo Carlo Semenza, figlio di Edoardo, presenta una relazione al padre dove ipotizza l’esistenza di una frana di grandi dimensioni, di almeno 200 milioni di metri cubi di roccia. Müller è convinto che le frane siano due, non una unica, ma poco cambia: una immensa o due frane molto grandi incombono sull’invaso del Vajont, lato monte Toc.
Le relazioni vengono tenute segrete, ma si decide lo svaso dell’acqua e la costruzione di una galleria di sorpasso sul fondo del bacino, in modo tale che se un giorno la frana si staccasse davvero, e trasformasse il grande lago in due laghi più piccoli, in base al principio dei vasi comunicanti, il sistema non verrebbe compromesso.
Anche Semenza padre, che finora non ha mai avuti dubbi, comincia ad averne: chiede ad Augusto Ghetti, ingegnere idraulico e luminare dell’università di Padova, di realizzare un modello della diga per simulare gli effetti della frana.
La galleria di sorpasso viene costruita a tempi di record e la SADE chiede di riempire l’invaso fino a quota 660 metri. La commissione di Collaudo del Servizio Dighe del Ministero dei Lavori Pubblici viene in visita alla diga: sarà perché i membri vengono tenuti all’oscuro dei dati più preoccupanti, e perché vengono coccolati nel migliore dei modi, tra pranzi a Cortina e cene a Venezia, tutto procede senza intoppi.
Il 30 ottobre 1960, colpito da emorragia cerebrale, muore Carlo Semenza. Poco dopo morirà anche il professor Dal Piaz, per i postumi di un incidente stradale. Semenza viene sostituito dal suo vice, ingegner Alberico Biadene, che – a differenza di Semenza – non ha alcun dubbio sulla tenuta dell’invaso, del monte e della diga, e come da ordini superiori va avanti il più spedito possibile verso il collaudo. Intanto la montagna continua a dare segnali preoccupanti: si moltiplicano le scosse di terremoto e i boati. Nelle relazioni tecniche che invia ogni quindici giorni al Servizio Dighe del Ministero, l’ingegner Biadene decide di cancellare traccia dei terremoti, e chiede l’autorizzazione per portare l’acqua a 700 metri slm.
Proprio in quel periodo, e dopo un anno di lavoro, l’ingegner Ghetti e il suo staff scriverà alla SADE che la quota di sicurezza è 700 metri sul livello del mare, dunque venticinque metri meno del totale riempimento: se il livello dell’acqua resterà sotto quella quota non ci sono rischi, mentre se l’acqua verrà portata oltre, è possibile che la frana possa generare un’onda di dimensioni molto pericolose per i paesi limitrofi.
Il 12 dicembre 1962 nasce l’ENEL, Ente Nazionale elettricità, e tutti gli impianti di produzione elettrica – finora in Italia in mano a privati – vengono nazionalizzati, compresa la diga del Vajont, che però non è stata ancora collaudata: la SADE e Biadene decidono di andare il più rapidamente possibile al collaudo. A collaudo effettato, il livello dell’acqua nella diga verrà immediatamente abbassato, ma a quel punto la vendita sarà andata in porto. Nel frattempo, e senza permessi, diga e centrale annessa vengono messe in funzione.
A marzo ’63 viene fatta richiesta di portare l’acqua a 715 metri slm, dunque 15 metri oltre la quota di sicurezza, mentre scosse e boati continuano, la popolazione e le amministrazioni locali sono molto preoccupate: ogni tentativo di avere spiegazioni o controlli maggiori si infrange contro le rassicurazioni della SADE e l’ottimismo della commissione di Collaudo, dunque del Ministero.
A inizio settembre l’acqua ha raggiunto quota 710 metri: Biadene viene richiamato d’urgenza alla diga (da tempo lui preferisce stare negli uffici veneziani della SADE) perché i segnali sono molto preoccupanti: la fessura di due chilometri e mezzo a forma di M si è allargata, molti alberi sul Toc sono inclinati, la strada sulla sponda sinistra ormai è impraticabile. Biadene accetta di bloccare il riempimento e il 27 settembre si rassegna: bisogna portare l’acqua alla quota di sicurezza, 700 metri slm.
Arriva così l’ottobre ’63: la situazione peggiora a vista d’occhio, cadono sassi dalla montagna, gli alberi sono sempre più inclinati, si aprono altre fessure nel terreno. In molti alla SADE danno per imminente la caduta della frana. Viene chiesto al comune di Erto e Casso lo sgombero della sponda sinistra dell’invaso.
Il 9 ottobre ’63, l’ingegner Biadene decide di chiudere un telegramma all’ingegner Pancini, suo capocantiere in vacanza, con una invocazione celeste: “Che Iddio ce la mandi buona”.
Il salto dall’onnipotenza degli ingegneri alla resa mistica è tardivo: alle 22 e 39 del 9 ottobre, la frana si stacca. 260 milioni di metri cubi di roccia, generando un’onda incredibilmente più alta di quella prevista dall’ingegner idraulico Augusto Ghetti. Parte dell’onda sorpassa Casso quasi senza provocar danni in paese, mentre il resto dell’acqua si divide in due onde: metà va verso Erto e soprattutto verso le sue frazioni che vengono spazzate via. L’altra metà dell’onda supera la diga e precipita a valle, investendo Longarone e le sue frazioni.
È una strage con pochi feriti e moltissimi morti: 1917. Lo spostamento d’aria (simile a quello provocato dalla bomba atomica di Hiroshima) e la violenza dell’acqua distruggono completamente tutto ciò che incontrano. Una sola cosa non subito danni: la diga, che a parte qualche sbecconcellatura sul coronamento, ha retto perfettamente.
Francesco Niccolini
*Francesco Niccolini, drammaturgo e scrittore, scrive e lavora per Marco Paolini dai tempi della versione televisiva del Vajont. Proprio per quell’occasione ricostruì tutta la storia della diga, e non ha mai smesso di tornarci.