Sono le 22,39 del 9 ottobre 1963 quando dal Monte Toc, con una rapidità impressionante (accelerando in pochi secondi da 0 a 90 km/h), si stacca una frana di 260 milioni di metri cubi di roccia, terra, piante e animali e precipita direttamente nel serbatoio dietro la diga del Vajont sollevando verso il cielo cinquanta milioni di metri cubi d’acqua.

Un’onda altissima (circa 250 metri) che sorpassa la diga e si spezza in tre onde, la più grande punta a valle e piombando a terra scava un cratere profondo quaranta metri che sventra i paesi di Erto e Casso per abbattersi poi nella valle del Piave distruggendo in due minuti Longarone e i paesi limitrofi, sul confine tra Friuli Venezia Giulia e Veneto. Resta in piedi solo la nuovissima diga, la più alta al mondo allora. Intatta.

Le vittime sono 1917, la più piccola aveva solo ventuno giorni. I giornali di quei giorni parlarono di “apocalisse delle Alpi” e di “Hiroshima nel Cadore”. È stato calcolato che l’energia liberata all’interno della valle quella notte è pari a quella di bombe atomiche.

Nel 1993 il drammaturgo, attore e scrittore Marco Paolini con il monologo Il racconto del Vajont del 1993 e con la successiva messa in onda televisiva del 1997 porta alla ribalta la strage industriale del 9 ottobre di sessanta anni fa mettendo in chiaro coraggiosamente che non si trattava di “natura maligna” ma parlando apertamente di responsabilità umane in un avvenimento che inizia lentamente con progressivi segnali di cedimento durati tre anni e poi accelera inesorabile, un processo «di cui si sono ignorati i segni e, quando se ne è presa coscienza, era troppo tardi».

Sessantanni dopo va in scena VajontS per una Orazione Civile Corale, curata da Marco Paolini con la collaborazione di Marco Martinelli. VajontS, al plurale. Perché il racconto che trent’anni fa aveva la sola voce di Marco Paolini, oggi nel sessantesimo anniversario trova altre voci e si fa racconto corale che coinvolge in contemporanea in oltre 150 teatri in Italia e in Europa con rappresentazioni a Parigi, Ginevra ed Edimburgo.

Il monologo diventa un coro, una partitura, suonata eseguita narrata e detta in contemporanea in più luoghi e da centinaia di persone che si fermano contemporaneamente alle 22:39 per osservare un minuto di silenzio.

È proprio Paolini a chiamare a raccolta il teatro e il mondo della cultura italiano. In mesi di lavoro il Comitato promotore di Fabbrica del Mondo e dalla Fondazione Vajont hanno teso un filo che attraversa tutto il mondo del teatro e non solo.

Dai teatri stabili (il Piccolo Teatro di Milano, lo Stabile del Veneto, lo Stabile Torino, lo Stabile del Friuli Venezia Giulia, lo Stabile di Bolzano, Sardegna Teatro e lo Stabile dell’Umbria) alle compagnie storiche del teatro di ricerca (CSS Teatro Stabile di Innovazione di Udine, Accademia Perduta/Romagna Teatri, Fontemaggiore Teatro di Perugia, Ravenna Teatro, Fondazione Atlantide Verona, La Contrada di Trieste, Assemblea Teatro di Torino, Compagnia Vetrano-Randisi, Cada Die Teatro di Cagliari, Crest di Taranto, Casa del Contemporaneo di Napoli, Kismet e Tric Teatri di Bari, Artisti Associati Gradisca, Arca Azzurra Teatro, Coop Teatro Lanciavicchio, Inti Compagnia Teatrale di Brindisi) ai piccoli teatri di provincia, alle scuole, le chiese, i centri civici e le biblioteche, le dighe e centri parrocchiali coinvolgendo grandi attori e allievi delle scuole di teatro, musicisti e danzatori, maestranze, personale e spettatori arruolati come lettori.

Ciascuno con un proprio allestimento di VajontS 23, a partire dalle peculiarità del suo territorio. VajontS 23 sarà come un canovaccio. Ci sarà chi lo metterà in scena integralmente, chi lo userà come uno spunto e lo legherà alle tante tragedie annunciate che si sono succedute dal 1963 a oggi.

A Roma, come nelle altre città di Italia e non, sono diversi gli appuntamenti sparsi per la città. Sul palco del Teatro Brancaccio, ad esempio, si alternano nella lettura trenta artisti (Laura AdrianiValerio Aprea, Marianna Aprile, Antonio Bannò, Luca Barbarossa, Mia Benedetta, Barbara Bobulova, Paolo Calabresi,Francesco Colella, Ilenia D’Ambra, Massimo De Lorenzo, Carlo De Ruggieri, Martina Ferragamo, Isabella Ferrari, Anna Ferzetti, Marta Gastini, Sara Lazzaro, Neri Marcorè, Antonio Muro, Filippo Nigro, Edoardo Purgatori, Elena Radonicich, Vanessa Roghi, Fabrizia Sacchi, Pietro Sermonti, Alessandro Tiberi, Thomas Trabacchi, Giulia Vecchio, Luca Zingaretti) di diverse generazioni, accompagnati da due musicisti, Massimo De Lorenzi alla chitarra e Giovanna Famulari al violoncello.

Le voci si alternano nella messa in scena curata da Laura Adriani, Neri Marcoré e Pietro Sermonti e coadiuvata dalle illustrazioni di Alessandro Tiberi. A chiudere la narrazione – interrotta solo dal suono di una campana alle 22,39 seguita da un minuto di rigoroso silenzio con interpreti e pubblico in piedi, spinto da un accordo silenzioso e commosso fatto di sguardi e di emozione – è una domanda: adesso che sul Vajont troviamo tutto su YouTube a cosa serve raccontare questa storia?

La risposta è nelle parole di Tina Merlin, all’epoca giornalista de l’Unità che solo nel 1983, vent’anni dopo il disastro, troverà un editore disposto a pubblicare il suo Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe per dare giustizia a chi non l’aveva avuta: «Sto scrivendo queste righe col cuore stretto dai rimorsi per non aver fatto di più per indurre il popolo di queste terre a ribellarsi alla minaccia mortale che ora è diventata una tragica realtà. Oggi tuttavia non si può soltanto piangere. È tempo di imparare qualcosa».

Raccontare adesso la storia del Vajont non deve servire a consolarci ma a ribellarci. Quella stessa storia, oggi parla di noi e non più di loro. Nostra è la paura e la ribellione.

«I terremoti – scrive Paolini su Instagram – non sono prevedibili ancora, le alluvioni lo sono di più, così come la siccità. Il territorio italiano è denso, antropicamente denso come un formicaio operoso e insaziabile. Mangiamo terra, consumiamo suolo e buona parte di quel suolo è a rischio idrogeologico. A ogni catastrofe sentiamo ripetere parole che non servono a impedirne altre. A ogni catastrofe vediamo e ascoltiamo il meglio e il peggio del nostro carattere, del nostro modo di rispondere ai colpi della vita. Noi non siamo scienziati, né ingegneri, né giudici. Non raccontiamo per giudicare ma perché sappiamo che il racconto muove, attiva un algoritmo potente della nostra specie: i sentimenti, le emozioni».

Se per i greci nella “catarsi” si concretizzava la funzione stessa della tragedia, nel dialetto bellunese il termine assume invece il significato di “trovarsi”. Probabilmente le due accezioni portano allo stesso concetto, ad un teatro che oggi permetta di “ri-trovarsi”, di stare insieme e meno soli. Non un’entità fuori dalla realtà. «Siamo cittadini oltre che artisti e partecipare a questo progetto per tutti noi significa dichiarare la nostra disponibilità a far parte di questa comunità. Non indichiamo soluzioni ma partecipiamo, come cittadini e come insieme, alla ricerca di queste soluzioni».

Non solo commemorazione o mero esercizio di memoria delle vittime e della ricorrenza, quindi. Non solo uno strumento di memoria e denuncia sociale ma anche una narrazione sociale che parla del presente, di noi e del nostro futuro e che, nel segno di una tragedia già avvenuta, insegna cos’è la «sottovalutazione di un rischio affrontato confidando sul calcolo dell’ipotesi meno pericolosa tra tante, tra tante scartate perché inconcepibili, non perché impossibili».

«Quello che chiediamo, raccontando VajontS23, non più da solo – conclude Paolini – ma in un enorme coro, è di riflettere sugli errori più che sulle colpe e di ragionare sulla complessità delle storie di tutto il nostro Paese.  Per questo un Vajont con la S al plurale, perché le situazioni di fragilità dell’Italia, fragilità idrogeologica e le nuove situazioni di siccità a cui la crisi climatica ci espongono, richiedono anche al teatro, all’arte in generale, di occupare un ruolo civile di colla sociale tra i cittadini. È questo il senso del coro che noi abbiamo messo in campo per il 9 ottobre 2023».

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